Dirette, intense, cruente. Talvolta persino irriverenti. Fiabe faroesi, raccolta edita da Iperborea con traduzione e postfazione di Luca Taglianetti, apre uno spiraglio importante sull’immaginario collettivo – e la memoria storica – di questo popolo lontano. C’arrivo tardi, lo confesso. Il libro è uscito da quasi cinque anni, con la prima edizione nel novembre del 2018. È stato dato alle stampe dopo Fiabe lapponi (2014), Fiabe danesi (2015), Fiabe islandesi (2016), Fiabe svedesi (2017). Una lunga carrellata di ricerca letteraria per scavare nel folklore nordico. Ho una seconda confessione da fare: non ho ancora letto gli altri volumi di questa serie, né le opere precedenti né quelle pubblicate in seguito (dedicate alle fiabe norvegesi, groenlandesi, finlandesi e della terra dei Sami). Se ci sono arrivata è, come spesso accade coi libri, per caso e fortuna. O quasi…  

Da qualche tempo e in maniera del tutto inaspettata, le fiabe sono tornate a fare parte dei miei scaffali. Tutto è iniziato con un regalo: Le fiabe interpretate, di Marie-Louise von Franz. Un libro che si collegava ad altre letture di inizio anno, legate al bestseller Donne che corrono coi lupi. Per questo sono rimasta sorpresa quando in Armenia, in coincidenze del tutto fortuite, mi è finito tra le mani un volumetto in italiano dal titolo Fiabe armene. Forse un giorno avrò modo di raccontare anche come si è svolta questa scoperta inaspettata. Ma qui mi serve solo per dire che, se io negli ultimi mesi stavo più che altro cercando i miti e le leggende, erano le fiabe che stavano cercando me.  

Fiabe faroesi, nelle sue 157 pagine, racconta di un popolo in cerca di un’identità propria e della sua salvaguardia. Una remota provincia della Danimarca aggrappata a isolotti di vento e roccia e a una natura probabilmente cruenta, forse anch’essa in cerca d’autore. Non sono mai stata nelle Isole Faroe. Posso solo azzardare delle ipotesi. Ma la cosa curiosa è come ora me le figuro nella mente, dopo aver letto i 28 racconti e il commento finale, di Luca Taglianetti. Il commento l’ho letto prima di completare la lettura delle storie. Avevo bisogno di contestualizzare, di avvalermi di qualche indizio in più per capire che cosa davvero stessi leggendo.  

La sensazione era infatti quella di essermi imbattuta in racconti che dopo la formula di rito del famoso C’era una volta si tuffavano in episodi di brutalità, o di ironia ai miei occhi violenta, quasi estremizzata. Altri tempi, altri luoghi, ovvio. Ma pure facendo appello ad un certo relativismo culturale e alla consapevolezza della ferocia delle fiabe raccolte dai Fratelli Grimm, c’era qualcosa che non mi tornava. Per la maggior parte dei racconti, mi sembrava di trovarmi di fronte ad un tipo di narrazione lontana da molte fiabe di diverse culture. Persino il lieto fine spesso era soggetto a condizioni per me ben poco liete. Sentivo l’assenza di alcuni motivi ricorrenti. Quindi le parole del curatore mi sono state decisamente utili per contestualizzare il tutto.  

Così, mi sono ritrovata in una gelida notte di gennaio. Una di quelle in cui fuori senti ruggire il mare a miglia di distanza e provi gioia per il tepore di una fiamma crepitante. Lì, attorno allo stesso fuoco, c’è la tua comunità d’appartenenza, che ogni sera d’inverno si plasma e riplasma in modo incessante, con un lento sciabordio d’onde di parole. Si tratta delle kvøldsetur, le sedute serali. E qui mi sembra doveroso citare direttamente il testo:  

C’è una netta distinzione tra i narratori di leggende locali, per la maggior parte uomini, e le narratrici di fiabe, quasi esclusivamente donne anziane non sposate, non scolarizzate, che vivevano sole o lavoravano come serve.

L. taglianetti

Donne, per l’appunto. Donne il cui isolamento geografico avrebbe, come alcuni studiosi ritengono, contribuito alla trasmissione per via diretta di un repertorio locale autentico. Repertorio dal quale si evincono alcuni temi comuni al resto d’Europa (o quantomeno di una certa Europa centro-settentrionale), ma dai quali mancano aspetti comunemente presenti altrove. Un’originalità autoctona quindi.  

Per un lungo tempo le kvøldsetur furono l’unico mezzo di trasmissione e di consapevolezza culturale nazionale, vero centro della vita sociale faroese.

L. taglianetti

Una narrazione quasi spontanea quindi, vecchia di chissà quanti secoli, cui aggrapparsi per non sprofondare in una progressiva assimilazione culturale data dal dominio straniero. Incredibile quanta poca importanza diamo alle fiabe e quanta rilevanza dovremmo invece riconoscer loro. Se non a livello letterario, almeno sul piano antropologico. Se il repertorio di fiabe di un popolo offre quindi elementi d’analisi importanti sulla sua cultura, tornando alla von Franz, vari temi ricorrenti delle fiabe lasciano intravedere aspetti di culti pagani. E, in particolare, di quella religione della Dea che a lungo deve avere caratterizzato anche il nostro continente, allora molto più giovane che vecchio.  

Così, sono stata felice quando, addentrandomi verso le ultime fiabe, mi è sembrato di scorgere alcuni di questi elementi. Potrei avere preso un abbaglio, ma proverò comunque ad elencarne alcuni. Prima però penso sia giusto osservare più da vicino la terra di cui stiamo parlando. Come scrive Giulia Pretta su Critica Letteraria poco dopo l’uscita del libro: “Il piccolo arcipelago che conta diciotto isole, circa cinquantamila abitanti e ottantamila pecore, è quello delle Faroe. Selvaggio, riservato e schivo, ha per lungo tempo tenuto per sé il proprio bagaglio folkloristico.”  Un bagaglio nel quale, è giusto dirlo, sono comunque presenti anche elementi comuni ad altre culture.

Taglianetti, nel commento finale al testo, fa riferimento a precedenti studi condotti sulle fiabe faroesi. Spesso, infatti, queste storie contengono influssi danesi, norvegesi e aspetti che le accomunano alle saghe e all’epica medievale islandese. Ci sono i giganti, le fanciulle rapite (spesso proprio da troll, giganti o affini) da ricevere in premio come spose una volta portate in salvo. Ci sono protagonisti la cui scaltrezza è suggerita già dal nome: Lokki resta decisamente simile alla divinità Loki. C’è la figura di Ceneraccio. Così come “l’importanza di ingraziarsi la benevolenza di spiriti e folletti, che con il loro intervento possono cambiare la vita e le sorti degli uomini”. Per non parlare della necessità di compiere una decapitazione affinché l’animale parlante torni alla sua forma originaria e l’incantesimo si spezzi, una volta per tutte. Tutti questi elementi sono presentati in maniera succinta, ma chiara, nel commento di chiusura al testo.  

Ci sono però altri elementi che hanno attirato la mia attenzione oltre a quelli elencati sopra. Per osservarli, provo a tornare direttamente alle fiabe, di cui mi verrebbe da evidenziare il gesto di spezzare la schiena per fermare qualcuno. La sua colonna vertebrale, certo, ma in modo più esteso la sua stessa capacità d’agire e reagire agli eventi. La presenza del calderone/pentola quale strumento anche risolutivo delle vicende. Frasi come “si dice che i giganti potessero far calare o disperdere la nebbia a loro piacimento”. I dodici briganti del bosco, che mi chiedo se in qualche modo possano essere legati ai 12 mesi dell’anno. La vicenda della casa di frittelle che ricorda quella della strega di Hansel e Gretel. Per non parlare di montagne ed edifici di vetro, cespugli di rose, il cervo, o chiavi di ogni sorta.  

Ma questi, a ben vedere, sono dettagli. Forse preziosissimi per capire meglio analisi e significato di queste storie, oppure totalmente inutili e fuorvianti. Ciò che emerge tra le righe di questa raccolta di fiabe faroesi è invece una coppia di temi, non per forza presenti insieme. Da un lato, un modo di fare che si può riassumere con l’esclamazione “Non potrà andar peggio delle altre volte” e che serve a legittimare il protagonista nel suo tentare (e alla fine riuscire) dove altri prima di lui hanno fallito. Una sorta di cos’abbiamo da perdere che, visto dall’esterno, mi sa tanto di popolo avvezzo alle catastrofi. Al doversi continuamente inventare e reinventare perché non ha alternativa. Dall’altro lato invece, ecco l’elemento ricorrente della bugia.  

Spesso il protagonista è oggetto di delazione da parte di quanti lo invidiano e vorrebbero prendere il suo posto. In altri casi invece, è proprio il personaggio principale a ricorrere alla menzogna pur di rendere propizia la situazione per salvarsi la vita o riuscire nel suo intento. La bugia però resta. Verrebbe – ma sarebbe da verificare – quasi da considerarla quale espediente necessario a sopravvivere in un mondo in cui le avversità sono frequenti. Un contesto geografico, climatico, storico, in cui la scaltrezza è spesso necessaria o quantomeno presente. E, in quanto tale, se in un certo modo va tramandata o insegnata alle nuove generazioni in ascolto, dall’altro implica anche la capacità di farsi valere e di mettersi al riparo contro i soprusi.  

E l’elemento femminile? Le fiabe faroesi non contemplano unicamente l’opzione della principessa da salvare. Ci sono anzi racconti in cui le streghe del bosco, oppure la madre del protagonista, permettono di arrivare felicemente alla conclusione. Ci sono persino protagoniste femminili, capaci di sbrogliare la matassa e di riuscire nell’impresa. Non a caso, una delle storie che più mi sono piaciute – e in cui a mio discreto parere sono presenti elementi sacri femminili in gran numero – è quella intitolata Il ragazzo che fu rapito dalla sirena. Non mi dilungo, solo questa tra tutte le brevi ma intense fiabe faroesi si meriterebbe un lungo approfondimento. Chiudo invece con un tema comune a tante fiabe, non solo di queste terre lontane, ma più in generale: la necessità di trovare e di ritrovare qualcosa.

Sarà una mia semplice suggestione, ma mi fa pensare a quanto di noi perdiamo per poi correre a cercarlo perché ci rendiamo conto che, senza quella componente del nostro essere, semplicemente non potremmo esistere. Un po’ come con le fiabe: perdute, ritrovate ed eternamente presenti.