La permanenza del tatuaggio e l’impermanenza della farfalla. Unire i due aspetti è una cosa che fanno in molti: caviglie, polpacci, polsi, spalle, scapole. Leggere “Il Circolo delle Donne Farfalla”, romanzo di Fiori Picco, mi è stato utile per creare mentalmente un nuovo tipo di legame tra questi due elementi. E qui entra in gioco l’Antropologia.
Ho incontrato l’autrice al Festival dell’Oriente di Brescia l’ultimo fine settimana di febbraio 2023. Il portamento esile, il viso minuto, la voce quasi flebile davano l’impressione di un essere in lieve contrasto con la confusione del momento. Alle fiere c’è sempre un po’ di confusione. Soprattutto quando i sensi sono rapiti in simultanea da nuvole d’incenso e dalla risonanza che si crea tra le campane tibetane. Ho dato un occhio veloce ai libri e ho colto l’invito alla presentazione dell’ultimo. I volti di quattro donne sembravano contorcersi sullo sfondo azzurrato della copertina. Era una storia che mi andava di ascoltare, ma non sapevo come si sarebbe evoluta la giornata.
E poi, come spesso mi accade, ci sono capitata. Un po’ l’ho cercata, un po’ ci sono incappata. Forse l’autrice si ricorda di me come di quella che ha cercato di collegare i cavi del proiettore senza ottenere grandi risultati. Speravo di poter dare una mano. Anche per sentirmi parte di una presentazione letteraria sulla Cina, un mondo che un tempo studiavo. L’Asia ha avuto molti modi per chiamarmi. Questo libro l’ha fatto con la stessa delicatezza dell’autrice: con un taglio semplice e diretto. Con una narrazione che mi ha sorpresa non tanto per la storia in sé, quanto per il tema che affronta. Se non avete letto il libro, da qui in poi potreste trovare un po’ di spoiler, pensateci bene prima di proseguire.

Quando parlavo sopra del legame tra il tratto indelebile dell’inchiostro e la leggerezza impermanente della farfalla, stavo pensando ai visi di quelle quattro donne. Quelle in copertina a “Il Circolo delle Donne Farfalla”. Che, pur non essendo le protagoniste del libro, in qualche modo lo diventano. Personaggi loro malgrado di una storia vera e anche molto triste. Quella di una lontana provincia cinese confinante con il Tibet, dove le donne dovevano subire un tatuaggio sul volto per motivi di protezione. Spirituale, come si capisce dai primi capitoli. Ma anche materiale, come si evince più avanti.
Un tatuaggio costituisce un marchio indelebile. Averne uno sul viso vuol dire accompagnare i propri anni con un riflesso quotidiano nel quale non ci si riconosce più. Dove è necessario andare oltre le linee del disegno d’inchiostro per ritrovare le sembianze dei propri lineamenti. E si finisce per il confondersi con il corpo affusolato e le grandi ali di una terribile farfalla. Eppure, in alcuni momenti della Storia, il genere umano ha scelto – e spesso imposto – la deturpazione come corazza. Una forma di protezione austera e inflessibile, immutabile se non per l’incalzare del tempo, che alle tracce d’inchiostro aggiunge le rughe dell’animo.
Non voglio soffermarmi troppo sulla storia – una ragazza che cerca sé stessa andando lontano – né entrare nel dettaglio delle usanze locali (sarebbe davvero troppo spoiler). Anche perché, ciò che davvero mi ha affascinata del libro non è stato lo stile narrativo, né la scoperta specifica di questo popolo. È stata la presa di coscienza di quel meccanismo che, per giustificare un atto difficile e dalle conseguenze immutabili, sceglie di entrare nella sfera del sacro. È strano pensare a come la necessità della salvezza terrena si possa legare indissolubilmente alla promessa della salvezza spirituale.
Una sorta di “far di necessità virtù” che possiamo trovare, attraverso i secoli e nelle forme più svariate, in diverse aree del globo. Protagonista, ancora una volta, è la donna. La donna che infligge, la donna che subisce. Come non pensare ad altre pratiche rischiose quali l’infibulazione? Pratiche per le quali è sempre pronta una giustificazione. Ma, come in tutte le cose quando si parla di cultura, è necessario procedere con guanti protettivi e dei bei piedi di piombo.

“Il Circolo delle Donne Farfalla” mi ha fatto venire in mente anche un’altra usanza, in passato molto diffusa. Quella di isolare la donna durante il periodo del sangue mensile. Molti studiosi ritengono si trattasse non tanto di una forma di allontanamento per dettami di impurezza religiosa. Anzi. Tale impurezza potrebbe essere insorta in un secondo momento, a forma di tutela verso una donna indebolita dalle mestruazioni e, pertanto, bisognosa di maggiore riposo e introspezione. Una credenza estraniante giustificabile con un’originaria ricerca di protezione, quindi.
Eppure, quando un atto discriminatorio si compie, inevitabilmente esso si trasforma in sopruso. Sia che venga praticato con l’ostracismo sociale, con il rasoio, che con dell’inchiostro. Quanto è giustificabile sulla base delle necessità concrete di protezione? Quando invece è destinato a diventare una forma di prigione dalla quale la donna raramente può fuggire?
Credo che nessuno sano di mente nel nostro Occidente contemporaneo vorrebbe sottoporre una ragazzina ad un supplizio feroce come quello di tatuarle sul volto un’orrenda farfalla. Nemmeno con la promessa che questa la condurrà un giorno sana e salva verso il regno degli spiriti. Infatti, “Il Circolo delle Donne Farfalla” racconta la storia di una terra lontana. Forse già questo rappresenta l’indizio per una chiave di lettura.
Per comprendere se esistono delle ragioni che vanno oltre la superstizione o la discriminazione – e non è detto che ci siano – bisogna guardare più da vicino. È necessario osservare nel dettaglio i volti di quelle donne. Perdersi tra le chiazze scure lasciate dall’inchiostro. E da lì, risalire alla mano che si è presa la briga d’infliggere tanto dolore. Bisogna addentrarsi, immergersi in quell’inchiostro. Altrimenti continueremo a vedere solo delle donne deturpate, oppure dei soggetti affascinanti degni di figurare su delle riviste di Antropologia. Serve provare a cercare tutti i protagonisti della vicenda, raccogliendo le loro storie personali e le altrettante storie che questi hanno da raccontare. Ascoltare ogni ragione per dipanare il bandolo della matassa. Ammesso e non concesso che questa matassa poi ci appartenga o competa davvero.

Certo, il risultato resterà comunque terribile. Ma forse smetteremo di etichettare queste donne unicamente come vittime di un’usanza barbara e incivile. Accoglieremo, e poi eventualmente respingeremo, la possibilità che si sia trattato di un rito dalle valenze sciamaniche di protezione.
Penso che valga sia per le donne con il tatuaggio della farfalla che troviamo nel libro di Fiori, che per molte altre situazioni. Ed è per questo che ho apprezzato il libro. Perché la giovane protagonista parte con un’idea ben salda e si lascia guidare dalla curiosità, dalla voglia di saperne di più, dalla sete di comprendere. O, almeno, di provarci. Comprendere cosa significhi vivere con una mutilazione e farci i conti ogni giorno. Comprendere il valore che la donna a cui è stata inflitta attribuisce a tale mutilazione. Leggere i caratteri salienti della sua cultura e come questi sono mutati nel tempo. Approfondire le motivazioni sociali e materiali alla base dell’imposizione.
Forse allora il marchio imposto assumerà nuovi contorni, un’altra sfumatura. Non smetterà di essere terribile, profondamente ingiusto. Questo no. Ma ci fornirà, suo malgrado, gli strumenti per comprendere l’origine di una credenza. Soltanto allora, se di nostra competenza, saremo eventualmente autorizzati a scalfirla, preservarla, eluderla, rimpiazzarla, oppure… estirparla per sempre.
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