copywriter a caccia di storie luminose

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La Valle Camonica alle radici d’Europa

Ci sono fenomeni lunghi, ampi e larghi. Cambiamenti che interessano il nostro modo di pensare il mondo, di viverlo e conoscerlo. Trovare traccia di queste rivoluzioni epistemologiche, spesso lente e raramente lineari, è una benedizione. Inseguendone il corso, impariamo a comprendere meglio la nostra Storia e anche l’origine del nostro modo di essere. Dopo Pagine di pietra, ho deciso di addentrarmi ulteriormente nei millenni di questa terra. Questa volta, ad accompagnarmi è stato un libro che colloca la Valle Camonica Alle radici d’Europa. Edito da Electa, pubblicato nel 2022, questo volume di Umberto Sansoni con prefazione di Emmanuel Anati, andrebbe divulgato il più possibile.

Ho scelto d’inserire qualche riflessione scaturita dalle pagine – e dalle rocce – su questo blog. Forse perché questa sezione del sito, invece che chiamarsi appunto piattamente Blog, va sotto il nome di Storie luminose. E di luce, appunto, da queste incisioni ne esce tanta. Come in ogni cosa poi, nella storia così come nella comprensione dei luoghi – ho Napoli che palpita ancora sotto le palpebre – la differenza la fa la visione. Il “cosa mi porto a casa” da una città, così come da una lettura, è una questione di esperienze, emozioni, accadimenti. Ma soprattutto, si tratta di riuscire ad inquadrare gli elementi in modo tale che ti parlino, restituendoti un messaggio.

Già, ma come si forma un significato? In che modo costruiamo dentro di noi una lettura della realtà? Credo sia affascinante porsi la domanda ogni volta che ci rapportiamo a qualcosa di nuovo. Prevale un approccio materico, oppure quello prettamente emotivo? Bellezza è pensare che esistano più lenti attraverso cui scrutare il mondo. E che per sceglierle facciamo riferimento al personalissimo sostrato di vita sul quale poggiamo, ma anche alla visione figlia della cultura in cui viviamo. Weltanschauung, sì: stiamo parlando proprio di quella.

Qual era quella degli antichi abitanti delle vallate alpine? Per capirlo, leggerlo, studiarlo e farlo nostro, è prima di tutto interessante provare a ribaltare i termini di confronto. Quale approccio sto io adottando nel cercare di comprendere la visione degli antichi? Secondo quali parametri sono disposto ad interpretarne il lascito?

Alle radici d’Europa di Umberto Sansoni mi è piaciuto perché coraggioso. È coraggioso nell’andare a provare a leggere 10 secoli di storia della Valle Camonica. Ed è coraggioso nel provare a farlo con un taglio non eccessivamente tecnico, bensì abbastanza divulgativo. E lo fa mettendo insieme i singoli pezzi, provando cioè ad interpretarne la valenza in un insieme più complesso. In una visione d’insieme. Insomma: questo libro mi è piaciuto perché mi è stato utile nel provare a capire come si sia evoluta la visione del mondo di chi ha vissuto la mia Terra nel corso dei millenni.

Di questo, c’è un aspetto in particolare che m’interessa e in cui la pubblicazione mi è stata di grande aiuto. Come siamo cambiati? Quando e quindi anche perché, ad un certo punto abbiamo smesso di dare valore agli stessi principi? Sembrerà banale a chiedersi – in 10.000 anni grazie al piffero che si cambia! – ma osservare da vicino questo moto di modifica interiore è quantomeno arricchente. E sconcertante. Provo a raccontarne il perché.

Prima però contestualizziamo: il libro che ho tra le mani, e che colloca le incisioni rupestri di Valle Camonica alle radici d’Europa, ha solo qualche mese. È però il frutto di almeno 4 decadi d’interessamento personale da parte dell’autore e si basa sia sull’osservazione diretta che sul confronto delle fonti, appoggiandosi quindi anche a studi preesistenti. Ora, qualcuno potrà forse obiettare che noi Camuni abbiamo la leggera tendenza a sentirci al centro del mondo. Perché dovremmo osservare proprio la nostra terra per comprendere come la visione da cui è scaturito l’odierno pensiero occidentale si è evoluta oltre i millenni?

Perché la Valle Camonica vanta la principale concentrazione d’arte rupestre del continente. Sì, ma perché andare ad analizzare proprio le incisioni rupestri? Bè, perché hanno preceduto – e di parecchio – l’arte della scrittura così come comunemente la intendiamo. Queste testimonianze sulla roccia hanno avuto la capacità di durare e perdurare nel tempo. Quanto rappresentano, che si tratti di immagini del realmente vissuto, oppure di un mondo idealizzato, è come un lungo racconto su un’immensa lavagna. Una lavagna che per 10.000 anni almeno, se impariamo a leggerla, ci restituisce le radici del mondo alpino. Oppure… oppure proprio dell’intero continente europeo, vista l’esiguità di fonti a parimerito non deperibili. Fantastico. Pazzesco. Ma cosa ci raccontano?

Con questo pezzo non mi voglio addentrare nei riconoscimenti internazionali, nelle soglie tra una scuola di ricerca e l’altra né tantomeno nelle modalità di gestione del patrimonio del nostro territorio. Come già evidenziato nel pezzo sul testo Pagine di pietra, non sono un’archeologa. Aggiungo qui che non faccio politica e che a muovermi è un interesse di carattere personale. Ho bisogno di capire. Di esplorare perché ad un certo punto il principio del femminino sacro anche qui sia uscito dai radar. E le incisioni rupestri, prese in ordine di apparizione, ci restituiscono lo spaccato della visione del mondo – quella Weltanschauung che tanto figo fa citare – che progressivamente è andata mutando.

Certo, si tratta di cose note: ad un certo punto la donna ha assunto minore importanza nel corso dei secoli. E con essa, tutto il corredo di compiti e valori che si portava dietro. Ma seguire il tracciato di questa sparizione progressiva su un’immensa lavagna estesa a buona parte del territorio camuno penso sia emozionante. E anche utile: come dicevamo sopra, l’abbondanza di queste tracce durature ci permette di osservare l’evoluzione del pensiero alpino. E, in fin dei conti, anche di quello occidentale. In pratica sì, qui poniamo davvero la Valle Camonica alle radici d’Europa!

Altra precisazione doverosa: quello di Sansoni non è un libro specifico sul femminino sacro. Qui sono io che ne prendo un filone, una vena aurifera, e che ne seguo il corso per comprenderne l’evoluzione. Penso però che chi vive con entusiasmo la dinamica del femminino e quella delle testimonianze antiche possa trovare materiale interessante tra queste pagine. A cominciare dalle incisioni rupestri che raffigurano donne o oggetti, situazioni, cui queste venivano associate. Ad un certo punto però, come anticipato sopra, queste raffigurazioni al femminile arrivano a un’eclissi.

Utile è comprendere l’alternarsi delle scoperte e di come hanno rivoluzionato l’asse del pensiero. Una di queste fu l’agricoltura. Il mondo smise di essere un luogo in cui vivere dediti alla caccia e alla raccolta e la concezione stessa della Natura probabilmente cambiò. Immaginiamoci i nostri antenati che passano da un’attenzione animista verso l’ambiente in cui sono immersi ad una vita di tipo sedentario in cui la concentrazione si focalizza sulle attività antropiche. E quando si parla di agricoltura ci sono i campi da arare, seminare, curare finché qualcosa non germina, cresce, muore, si rinnova. L’eterno ciclo di sali-scendi dalle viscere della Terra al mondo per come lo conosciamo. Azioni in cui la donna ha un ruolo molto importante, e si sente.

La figura dell’orante, il leitmotiv, è ripetuta in centinaia di immagini con un’enfasi scenica sulla dimensione femminile (in percentuale, il 55% delle figure sessuate), che ben si accorda con il risalto della figura muliebre nell’intero quadro neolitico continentale. Pur non mancando i contesti caratterizzati da una forte attenzione per l’immagine maschile […], raramente associata all’altro sesso, e pur essendo numerose le figurazioni asessuate (perlopiù però sospette di essere femminili o comunque connesse in delle rappresentazioni con figure femminili), emblematiche sono le numerose scene in cui l’orante femminile è centrale, fulcro o interprete unico”

“ALLE RADICI D’EUROPA”, di Umberto Sansoni, p27

Ma il cambiamento di visione introdotto dall’agricoltura non è l’unica rivoluzione alla Weltanschauung che troviamo sulle nostre antiche incisioni. Nel III millennio a.C., con il Calcolitico, si verifica un’altra grande svolta. Sulle rocce affioranti emerge ora un approccio più spontaneo, con simbologia ctonia. Sulle stele invece, si erge uno stile più ortodosso, con simbologia uranica. Qualcosa inizia a mutare quindi. Iniziamo già ad assaporare le radici del culto del guerriero, della società patriarcale. E scopriamo l’amore e il rigore delle strutture megalitiche. Siamo agli albori, al seme della visione indoeuropea. Si punta verso l’alto, s’impianta un nuovo ordine cosmico, gli uomini costruiscono dei veri e propri siti. L’elemento solare emerge in posizione centrale e, in generale, si assume un approccio sempre più monoteista.

Poi, in questo viaggio nella Valle Camonica alle radici d’Europa, qualcosa cambia ancora. Siamo nell’Età del Bronzo, quando armi e monili vengono affidati anche alle acque. Come al Lago d’Arno, dove sono stati rinvenuti un’ascia a margini rialzati e degli spilloni. E piano piano, chi è in grado di forgiare e lavorare il metallo assume un ruolo di rilievo. Padroneggia l’elemento del fuoco, lo stesso usato per i riti del Brandopferplatz. L’arma e il disco diventano i cardini rappresentativi del nuovo assetto simbolico. Sono l’essenza della trionfante visione uranica, sacerdotale e guerriera. Sono questi i secoli del fabbro, delle divinità del tuono e del fulmine. L’eroe assume la sua spada e con essa s’identifica, dalla sacralità del suo metallo trae forza e prestigio. Il processo di Indoeuropeizzazione ha ormai solide fondamenta.

Ma il mondo femminile qui c’è ancora. Ci sono le palette, i telai della tessitura muliebre, c’è la ritualità sciamanica. C’è, ma si avvia verso il declino. E con l’Età del Ferro entriamo gradualmente nella Storia. Entriamo nella fase che in assoluto ha avuto la maggiore diffusione di incisioni rupestri, probabilmente anche con la nascita di scuole artistiche. Tutto ha inizio nel XII secolo a.C., con un raffreddamento del clima e le grandi invasioni di popoli di matrice indoeuropea.

Ora, a farla da padrone assoluto nelle raffigurazioni è la figura del guerriero. La società si è stratificata, l’assetto è eroico-aristocratico. Da noi forse mancano gli eserciti, ma il senso di conflittualità è costante. La donna è praticamente assente, tranne che in alcuni simboli e in scene di accoppiamento. Ricordiamolo: è al momento dell’accoppiamento che ha luogo l’unico atto generativo di carattere maschile.

La storia delle incisioni rupestri prosegue. Continua attraverso i secoli, arriva fino a qualche decennio fa. Cambia la visione del mondo, cambia chi la fa da padrone, cambiano i culti. Ma qualcosa, come abbiamo visto, è già andato perduto. E da questo dipendeva il mio senso di sconcerto iniziale. Perché se la nostra cultura occidentale si basa sì sui Greci antichi, ma ha come sostrato la visione del mondo di ceppo indoeuropeo, allora è vero. È vero che da interi millenni ci portiamo dentro il gene di una mancanza. Di una perdita. Di un principio primo, quello femminile, che eclissandosi ha scompaginato il nostro equilibrio (interiore ed esteriore).

Ecco perché questo viaggio che pone la Valle Camonica alle radici d’Europa è per me stato più che leggere un testo. Ha significato andare alla origini di questa mancanza. Ringrazio chi per decenni ha dedicato i propri sforzi allo studio costante di quella grande lavagna di pietra che è la nostra valle. Sono grata per ogni spunto che la lettura del libro Alle radici d’Europa. Dieci millenni d’arte rupestre in Valcamonica e nelle Alpi Centrali di Umberto Sansoni è stata capace di offrirmi. E ringrazio gli antichi, ma soprattutto le antiche. Che a un certo punto siate sparite da questa lunga e complessa lavagna è per me ancora motivo di profondo rammarico. E un po’ anche di mistero.

Pagine di pietra in Valle Camonica

Di pagine di pietra in Valle Camonica ce ne sono tante. Pagine scritte, riscritte, modificate nel corso dei secoli e dei millenni. Immense lavagne a cielo aperto solcate dall’erosione di pioggia, vento e ghiaccio. Luoghi su cui l’arte rupestre ha lasciato un segno profondo non solo con figure antropomorfe e rappresentazioni di animali e riti iniziatici. Ma anche con il dono della scrittura, quel solco profondo che ogni, qualvolta viene tracciato, ti porta a chiederti cosa sia Storia e che cosa ci fosse prima. Un solco protagonista del libro PAGINE DI PIETRA, di Alberto Marretta e Serena Solano.

Prima di tutto: non so bene dove suggerirvi di trovare questo libro se lo volete acquistare ora, ma so per certo che presso il sistema bibliotecario che mette in rete la Valle Camonica ne trovate almeno una copia. Altra cosa importante: la data di pubblicazione. Andiamo infatti indietro di quasi 10 anni (era il 2014) e un decennio è davvero un arco temporale tanto breve quanto lungo per smentire oppure confermare delle ipotesi in qualunque campo.

Quello che segue trae semplicemente spunto dal libro. L’articolo che state leggendo va preso per quello che è: il viaggio di curiosità di un’appassionata di miti e scrittura all’interno di un contesto geografico famigliare. Ho qui scelto di riprendere semplicemente alcuni aspetti del testo, accompagnandoli con delle riflessioni. Per amore del fatto che il libro non mi torni a fare la polvere sullo scaffale. Inoltre: mi sono appuntata solo ciò che mi ha colpita, sempre nell’ottica di mettere insieme i tasselli che più mi affascinano. Logico perciò pensare che molte cose interessanti mi siano sfuggite, che altrettante non ne abbia capite e che quanto state leggendo sia il sunto della lettura di una non addetta ai lavori.

Fatte le doverose premesse, confesso di avere deciso di scriverci sopra un pezzo perché avevo degli interrogativi più o meno di partenza. Di alcuni infatti ero già conscia, altri invece sono emersi proprio nel corso della lettura. Si tratta di temi ai quali mi sto scoprendo e riscoprendo legata. Quesiti cui spesso e volentieri non esiste una risposta precisa né, tantomeno, definitiva. Eccone alcuni: qual è la storia dell’antica scrittura della Valle Camonica? Esisteva un femminino sacro espresso, almeno in quest’ambito? Quali luoghi della valle conservano le testimonianze scrittorie più significative? Andiamo quindi al testo e alle informazioni che ho trovato preziose per provare a rispondere.

Il libro è scritto come andava scritto. La sensazione nel leggerlo è perciò quella di entrare tra le pagine di pietra in Valle Camonica insieme al modo di pensare di chi le studia. Un’operazione interessante, non sempre in tutto e per tutto semplice da seguire. C’è però da dire che i contributi dei vari capitoli aiutano a fornire una panoramica d’insieme, spesso anche molto dettagliata. Si tratta quindi di più paper specifici tutti legati principalmente da un luogo (Berzo Demo, dove da poco meno di un anno mi sono trasferita) e da un tema (la scrittura preromana dei nostri antenati camuni). Non restiamo però unicamente nel “trapassato”: verso la fine si trova anche un contributo molto interessante dal taglio più antropologico. Un aspetto che testimonia la necessità di adottare chiavi di lettura multidisciplinari per provare a comprendere un fenomeno tanto complesso quanto affascinante.

pagine di pietra in valle camonica

Fa bene sottolineare quanto l’ampiezza del corpus delle nostre iscrizioni incise sia davvero considerevole. E, di tutte quelle studiate o quantomeno catalogate fino alla pubblicazione di questo libro sulle pagine di pietra in Valle Camonica, sono due i luoghi che spiccano per abbondanza. Si tratta di Berzo Demo (loc. Loa, cui il testo è in buona parte dedicato) e Piancogno (salendo dall’abitato verso l’Annunciata). Al primo dei due luoghi sono legata per amore e scelte di vita, al secondo per discendenza da parte di madre (o meglio: di bisnonna materna). Questi ovviamente sono riferimenti personali che mi hanno fatto da briciole di Pollicino nella lettura. Li colloco nella sfera delle coincidenze con cui la nostra vita è intessuta.

Berzo Demo e Piancogno. Loa e l’Annunciata quindi. Due affacci sul fondovalle, due luoghi sotto diversi aspetti simili che, da quanto si evince, conservano stratificazioni di culto lunghe millenni. E, a proposito di culti, viene da sottolineare due questioni fondamentali: la difficoltà d’identificarli in modo univoco, per via della progressiva stratificazione. E la presenza per un periodo di tempo lunghissimo di più forme di culto praticate in contemporanea (alla faccia della linearità del tempo). Culti in cui l’antenato e il dio non erano poi forse troppo distanti l’uno dall’altro.

E qui entriamo in un tema tanto delicato quanto affascinante. Quello del ruolo dell’immaginario collettivo, della capacità di ritrarre un mondo ideale, forse più che reale. Un altro degli aspetti legati alle incisioni rupestri (in generale, non per forza solo alle iscrizioni in alfabeto) che mi hanno profondamente colpita. La reiterazione del cervo, la rievocazione forse anche dei propri miti fondativi. E la rosa camuna, probabile associazione al Sole e al contesto dell’iniziazione femminile. Questione che si fa ancora più interessante quando alcune raffigurazioni vengono coperte, anche solo parzialmente, da altre. Damnatio memoriae? E se sì, per quale ragione?

“L’arte rupestre non sarebbe la semplice raffigurazione di momenti del quotidiano ma piuttosto la continua rinascita di un mondo ideale, all’interno del quale sussisterebbero poteri e mezzi sovrannaturali in grado di investire sia l’essere umano che la sfera animale.”

pagina 55

A proposito di simboli… Incisioni di scrittura e incisioni di coltelli si scoprono essere spesso in relazione le une con le altre. Forse un’indicazione di status sociale, probabilmente un chiaro riferimento ad un mondo fortemente al maschile. Del resto, la scrittura era altrettanto probabilmente ad appannaggio di caste elevate. Elemento di prestigio che rientrava nella (o dava accesso alla?) sfera del sacro. Un sacro che, prima dell’arrivo dell’alfabeto latino e spesso anche in modo coevo, si basa su lettere vicine al nord-etrusco. Lettere che era necessario imparare a scrivere, a maneggiare con destrezza. E, alcune rocce in particolare, si prestavano particolarmente bene per esercitarsi in quelli che ora ricordano dei grandi quaderni a righe.

Scrivere, scrivere e ancora scrivere. Probabilmente con un’intensità maggiore rispetto a quanto avveniva nelle vallate limitrofe. Almeno, così lascia supporre la relativa abbondanza di materiale ritrovato in Valle Camonica. All’epoca della pubblicazione del testo (anno 2014), si era arrivati a contare circa 300 attestazioni di iscrizioni preromane in zona. La stragrande maggioranza su roccia. Da qui allo stabilire con certezza quando si sia iniziato a scrivere, è tutto un altro paio di maniche. In generale però, pare ci sia stata una maggiore diffusione delle iscrizioni nella tarda Età del Ferro. Un fenomeno che è andato accentuandosi in parallelo alla Romanizzazione del territorio, sancita in modo per così dire “definito” nel 16 avanti Cristo.

pagine di pietra in valle camonica

E qui chiudo queste pagine di pietra in Valle Camonica. Lo faccio per provare ad interrogarmi di nuovo sul punto di partenza, sui quesiti che ho trovato disseminati lungo il percorso. Di questo femminino sacro, almeno nella nostra antica scrittura, non mi pare di avere scorto traccia. Mi sembra invece evidente come le tradizioni (del folklore locale e della religiosità dei luoghi) abbiano in qualche modo conservato la presenza del principio femminile. L’Annunciata è del, resto, legata al culto della Vergine. Vergine profondamente onorata anche nelle feste di Berzo Demo. Se poi prendo spunto da uno degli ultimi capitoli, quello dal piglio antropologico, mi viene da soffermarmi sui racconti in cui le streghe non sempre e non per forza vengono dipinte come entità assolutamente malvagie. Al contrario, talvolta nelle leggende locali venivano in aiuto delle famiglie bisognose.

Confesso che da un lato mi spiace – per non dire che “mi scoccia” proprio – individuare ancora una volta la scrittura come sì un atto sacro, ma ad appannaggio della classe maschile. Chissà, forse al momento del suo arrivo in zona, la valenza profonda del matriarcale e dell’equilibrio tra i due principi si era già perduta. Forse invece non c’era mai davvero stata. Oppure forse, chissà… magari sono valori che ritroveremo soltanto scavando più a fondo. Tra le nostre rocce, e soprattutto, in ciò che resta della nostra memoria collettiva.

il nostro addio al freddo, dal blog di Sandra Simonetti

Il nostro addio al freddo

Articolo in evidenza

Nelle ultime settimane mi sono capitati sotto le mani un libro e un progetto. Tutti e due hanno a che fare con il cambiamento climatico e con il nostro addio al freddo. Un processo lento ma inesorabile, che fa strizzare il cuore agli amanti dello sci e i glutei a chi lavora nella filiera. Da perenne freddolosa, l’arrivo della bella stagione mi riempie di gioia, ma quest’anno più dei precedenti è una gioia lasciata a metà, un bicchiere di spensieratezza che resta incompiuto. Mi è mancata la neve, ci è mancata la neve. Il candido profilo dei monti quando si ricoprono di zucchero filato e sai che sarà acqua buona da mettere via per la tua torrida estate.

Vivendo con un appassionato di montagna, per me è diventato normale parlare di questi argomenti, anche se, da qualche tempo, mi fanno sentire piccola, impossibilitata a cambiare le cose. Eppure, voglio credere che si possa ancora invertire rotta, cominciando dalla consapevolezza. Come sempre poi la vita ti porta ad un incrocio di incontri e di coincidenze che coincidenze mai sono. E infatti nel giro di pochi giorni mi è arrivato a casa un libro e mi sono sentita raccontare un progetto. Il primo parla di economie invernali che si fanno liquide, in alcuni casi addirittura sublimando. Il secondo è la ricerca scientifico-artistica sul verso che fa un ghiacciaio quando muore: Un suono in estinzione.

Sì, lo so: non sono argomenti per deboli di cuore. Ma in qualche modo ci dovremo pur preparare se vogliamo evitare di dare il nostro addio al freddo in maniera definitiva. Cominciamo allora dalle pagine e poi passiamo ai suoni. Se possibile, con leggerezza e brevità. A proposito di brevità: quando è uscito il pezzo sui libri per donne in risveglio, uno dei commenti migliori che ho ricevuto riguardava proprio il fatto che sembra sempre mi blocchi ad un certo punto dell’approfondimento. Mi rende felice la richiesta implicita di raccontare di più, di scavare di più, di perseverare in questo carotaggio profondo di parole. Namasté. Da meditatrice distratta metterò in pratica, ma non ora.

Per il nostro addio al freddo partiamo allora dal libro Inverno liquido, di Maurizio Dematteis e Michele Nardelli. Per chi non li conoscesse (io rientravo in questa candida schiera), Dematteis è giornalista, ricercatore e scrittore con un focus specifico su territori alpini, questioni ambientali e sociale. Nardelli invece è autore, formatore e saggista con esperienza pregressa – da quanto ho capito – nel campo di territori, sicurezza e diritti. Hanno due penne diverse, due stili capaci di affrontare la liquefazione dell’inverno con due approcci che, potremmo dire, si compenetrano.

Una delle cose che più ho apprezzato di Inverno liquido è la sua capacità di fare il giro dell’Italia raccontando i luoghi e le esperienze che li contraddistinguono. A fine lettura, la mia speranza è che gli autori siano davvero capaci di portare avanti l’intento dichiarato più volte: dare vita a un vero e proprio collettivo di scrittura. Una realtà viva e in grado di ravvivarsi, di accendersi di nuove testimonianze, analisi ed intenzioni comunitarie. Rielaboro gli appunti segnati sul testo con il sottofondo del suono che fa il Ghiacciaio dell’Adamello. Una collezione di registrazioni in parte fruibili su SoundCloud. Voglio sentire la voce del ghiaccio che rischiamo di perdere per sempre.

un suono in estinzione

Uno dei concetti cari ai due autori di Inverno liquido è il limite. Un valore che, nel corso del tempo, abbiamo imparato a vedere con un’accezione negativa. Il limite, per l’uomo del Positivismo, è quell’ostacolo da superare. Anche il linguaggio comune si è riempito di espressioni figlie di una generazione che puntava, con convinzione e fede cieca nel progresso, proprio all’impossibile. È giunta l’ora di disimparare. Va invece ritrovato il senso dell’unico, dell’artigianale, dell’irripetibile. Tutti elementi che hanno in comune un aspetto chiave per la nostra salvezza come specie: il rispetto.

In questo caso parliamo di rispetto verso la montagna, ma potremmo tranquillamente prendere spunto per estenderlo ad altre sfere della nostra vita, o della nostra società-cultura. Nel libro abbondano i casi negativi, quelli di cui è bene prendere coscienza per distaccarcene e cercare valide alternative. Proprio su queste alternative si concentrano alcune interviste ed analisi. Progetti piccoli, medi e grandi. Idee che puntano a ritrovare una montagna da vivere sempre, a prescindere dall’andamento dell’inverno. Un mondo in quota che è prima di tutto frutto del lavoro delle comunità che lo abitano e che, giorno per giorno, sono chiamate a farsi nuovamente carico della responsabilità di plasmarlo avendone cura. Una delle lezioni comuni che possiamo trarre dalle buone prassi citate è la capacità di dedicarsi di nuovo alla “pluriattività”.

Si tratta infatti di attuare un cambiamento di rotta in grado di uscire da un’ottica fordista e dalla relativa “monocultura”. Un aspetto necessario anche perché il limite, che tanto abbiamo cercato di evitare, ha assunto una configurazione meteorologica e non solo. Ormai è infatti chiaro che sotto i 2.000 metri di altitudine non resterà nulla. Stiamo parlando delle stazioni sciistiche, il fulcro attorno al quale il materiale di questo libro si addensa. Da non praticante di questo sport, i numeri mi fanno ancora più impressione. Da libera professionista che crede nelle fonti di reddito e di indotto, le cifre mi lasciano sgomenta. Stiamo per dire addio a gran parte della stagione turistica invernale (e, più in generale, montana) per come l’abbiamo conosciuta. I suoni – o rumori? – che mi rimanda SoundCloud nel frattempo mi catturano, incuriosiscono. Si tratta di una lingua che non riesco a decifrare.

inverno liquido

Si tratta di un organismo vivente da tempo in uno stato prolungato di convalescenza, per non dire di agonia. Che atteggiamento siamo chiamati ad assumere nei suoi confronti? Nel pezzo precedente parlavo di risveglio femminile, di femminino sacro. Credo che vada aggiunta una componente chiave, che trascende il concetto di genere: per risvegliarsi, serve abbracciare la responsabilità di chi si è davvero e di come portare la propria individualità nel vasto mondo. Possibilmente cominciando dal piccolo e quindi proprio dall’ambiente che ci circonda. Nel caso di chi vive in Valle Camonica – come in molte altre vallate dell’arco alpino – è questione di aprire occhi e orecchie sulla montagna e sulla progressiva carenza di freddo-neve-inverno. Si tratta di credere ed investire in un nuovo turismo non solo esperienziale, ma anche relazionale, dove l’ospitalità diffusa diviene prassi consolidata. Dove si esce dal concetto vetusto di divertimentificio.

Riprendo di seguito alcuni passaggi del libro che ben si collegano al progetto Un suono in estinzione:

  • p61 “la clientela futura della montagna non sarà più quella dello sci ma gente che viaggia, che vuole dormire e mangiare bene, che un domani verrà sul Cervino per vedere il ghiacciaio morente e l’agonia diventerà anch’essa un’attrazione.”
  • p98 “Il vicino ghiacciaio dell’Adamello in trentatré anni ha perso una superficie di quattro chilometri quadrati, pari a 570 campi da calcio.”
  • p124 “Sappiamo che i ghiacciai delle Alpi hanno ormai il tempo contato.”

Dobbiamo smettere di concepire la montagna come un continuum della città. Dobbiamo smettere di drogare un’economia già morente con ingenti iniezioni di denaro pubblico. Denaro che, se comunque presente, potrebbe venire investito in modo ben diverso dal pompare inutilmente le stazioni dei comprensori sciistici sotto i 2.000 metri, puntando invece a progetti che credono nella diversificazione. Supportando le piccole attività che desiderano mettersi in rete. Educando e coinvolgendo il turista in una fruizione davvero autentica e davvero sostenibile. E, dove non è possibile riutilizzare impianti arrugginiti, è giunto il momento di smantellarli. Dove serve, vanno invece incentivate nuove forme di imprenditorialità multifunzionale. Sempre e comunque, va ritrovato il valore del concetto del limite. Prima che esso sancisca la fine della specie umana per come la conosciamo.

In sintesi, ci viene richiesta la capacità di sognare in modo responsabile e di sognare presto e forte. Di uscire dai modelli predeterminati e predeterminanti facendo un uso saggio della nostra sana immaginazione. Sono solo un’artigiana delle parole, non una scienziata, non una geologa, non una glaciologa. Ma penso che anche le parole, così come i suoni, possano contribuire in modo chiaro e forte a realizzare questa nuova grande impresa. Del resto, la consapevolezza rappresenta sempre un ottimo punto di partenza. Soprattutto quando è in gioco il nostro ecosistema alpino, il nostro mondo di montanari per nascita e per passione, la nostra sussistenza e, per converso, anche il nostro addio al freddo.

Letture per donne in risveglio

Letture per donne in risveglio

Quando ho aperto la sezione Storie luminose, ho pensato di trasformarla in un luogo di racconti. Un posto che desse spazio alla creatività e all’analisi, soprattutto di vicende narrate e di vita vissuta. Pagine e trame insomma, ma anche viaggi fuori e dentro di me. Con il tempo ho capito che cercare la perfezione nella stesura di un pezzo rappresenta un inciampo per ogni persona innamorata delle parole e del potere che sortiscono nel mondo una volta scritte o pronunciate. Con quest’articolo sulle letture per donne in risveglio m’importa di scrivere di un argomento che mi sta a cuore e di farlo senza freni se non quelli della coscienza e dell’amore per la scrittura. M’importa di andare oltre gli algoritmi, le intelligenze artificiali. Se siete qui è perché qualcosa vi ci ha portati. A me sta il compito di farvi restare, ma solo se lo desiderate e trovate utile.

libri sul femminino sacro

Desideravo scrivere di miti, di storie e anche di donne nei loro percorsi di liberazione interiore. Lo volevo fare da un po’, senza esserne pienamente cosciente. Da oltre un anno ho intrapreso un percorso di meditazione per liberarmi dai fardelli e dalle trappole del pensiero ricorrente, in ogni sua forma. Un percorso che ovviamente è solo agli inizi, ma che mi ha fatto sentire forte e chiara la necessità di tuffarmi oltre con la testa (e con il cuore). E così una serie di libri hanno iniziato a chiamarmi, prima con impercettibili bisbigli e poi con voce stentorea, arrivando a gridare “Perché non mi hai ancora letto?!”. Bella domanda! Molto probabilmente perché mi stavo autosabotando nel mio percorso di crescita personale. Sto cercando di porre rimedio, come e quando posso, spinta da un’altrettanto stentorea voce mia interiore.

E così nelle ultime settimane mi si è parato davanti agli occhi un intreccio interessante di pagine ed autrici. Tematiche simili, tecniche diverse ma spesso affini, la stessa grande voglia di esplorare territori insondati dell’inconscio. Di portare il lettore ad andare oltre i propri personalissimi pregiudizi e anche quelli ereditati dalla cultura in cui si ritrova immerso. Li propongo qui in ordine di lettura, ma in realtà se l’argomento vi appassiona, il consiglio è sempre quello di lasciarvi guidare dall’intuito. Lasciate che qualche cosa faccia breccia nel vostro cuore, ascoltate quella vocina che dolcemente vi sussurra “Scegli me, scegli me!”. Come avrete capito, ve li consiglierei tutti, ma lungi da me il compito di farvi da guida interiore belle gioie.

il sentiero della dea
daimon di selene calloni williams
le fiabe interpretate di marie-louise von fran

Sono tutte letture per donne in risveglio. Ci sono vari elementi che le accomunano, ma anche volendo fare una lista lascerei sicuramente fuori qualcosa. Farò il ragionamento inverso: a chi potrebbe fare piacere leggere almeno uno di questi libri? Sicuramente a chi è alla ricerca di sé stessa. Sì, preferisco usare il femminile, non solo perché le autrici sono appunto tutte donne. Ma anche e soprattutto perché tutte e quattro in qualche modo affrontano il principio femminile. Quell’Anima, quel Femminino sacro (e spesso selvaggio) che nel corso dei secoli è andato perduto! Non solo: dal racconto personale, al mito fino alla fiaba, tutti e quattro questi libri affrontano il tema di come una storia ci possa cambiare dentro. Una delle cose più belle e singolari, ma a pensarci bene neanche più di tanto, che rispecchiano questi libri è il modo in cui essi mettono in connessione tra loro le donne.

il sentiero della dea

C’è una componente femminile che emerge non solo da temi trattati ed autrici, ma proprio anche dalla dinamiche che si vengono a creare. Uno di questi libri mi è stato donato. Due li ho a mia volta prestati e un altro sono in procinto di prestarlo, oppure di regalarlo. Una sorta di catena, che ovviamente non è dimostrabile come costante a livello collettivo, ma che con me si è rivelata sotto forma di esperienza diretta, personale. Molto personale, dato che mi ha permesso di approfondire e consolidare il rapporto che ho con le donne protagoniste di questo piccolo cerchio. Tutte attratte da qualcosa, da una sorta di richiamo interiore, da una parte di noi che trova ancora troppo poco spazio e calore nel mondo esterno. Una parte da riscoprire, cullare e coltivare all’interno di uno nostro spazio sacro individuale.

Ovviamente questi libri sono solo in parte tra loro collegati. Ma penso che una volta cominciata la lettura di uno, sia facile provare il desiderio di aprire anche gli altri; uno dopo l’altro e in felice ordine sparso. Non è mia intenzione lasciare una recensione dettagliata o approfondita di ognuno di questi titoli. Almeno, non è ciò che intendo fare in questo articolo. Mi piace però l’idea di lasciare uno spunto, una sorta di “perché” leggere proprio quel libro. Ognuna (o ognuno) ci vedrà dentro poi le proprie ragioni, radici e ferite da cauterizzare, come diceva il saggio Battiato “fino a completa guarigione”. Ecco allora qualche spunto: il mio personalissimo perché, seguito da una citazione dal testo:

“Il sentiero della Dea”, di Phyllis Curott, perché l’esperienza personale di una donna raccontata in prima persona spesso vale più di molte teorie astratte. “Pensai alle sacerdotesse di Delfi e alla Sibilla che mi aveva condotto fino al cerchio.”

“DAIMON”, di Selene Calloni Williams, perché il mito va vissuto più che interpretato, lasciando che ci parli per richiamare alla luce anche le nostre ombre. “Superare la paura è accettare fino in fondo la sfida di guardare nell’invisibile, trovandovi dapprima la morte e poi la soluzione alla morte.”

“Le fiabe interpretate”, di Marie-Louise von Franz, perché le fiabe contengono molti elementi nascosti, per altrettante componenti di noi che abbiamo dimenticato, ma forse non perduto. “Si dovrebbe piuttosto convivere tutto il giorno con i simboli dei propri sogni e cercare di capire come e dove vogliono penetrare nella realtà della nostra vita.”

“Donne che corrono coi lupi”, di Clarissa Pinkola Estés, perché arriva un momento nella vita di ogni donna in cui è bene risvegliare la propria natura selvaggia ed è meglio farlo con una guida. “Per amare una donna, il compagno deve amarne anche la natura non addomesticata.”

daimon, libro di selene calloni williams

Da donna che crede nella forza sopita dei simboli e delle parole, sono molto grata per avere trovato queste letture per donne in risveglio lungo il mio cammino. Sempre da donna, che crede anche nel potere della condivisione, spero che questi testi, in gruppo oppure anche singolarmente, trovino presto la prossima persona in cerca di un cambiamento. Ci sono libri che curano, storie che risvegliano e narrazioni che trascendono i confini delle singole culture. Quando la nostra parte più profonda ci chiama, in qualche modo è bene trovare il modo di ascoltarla. Buona lettura a tutte, a tutti!

I primi tre libri della Storia d'Italia, di Indro Montanelli

LA STORIA di Indro Montanelli

Scrivere in modo chiaro e per tutti: se c’è qualcosa che LA STORIA di Indro Montanelli insegna è proprio questo. C’è sempre un modo per arrivare agli altri con la scrittura e, se si è bravi, si riesce a rendere interessante anche un argomento a detta di molti “noioso“. Anzi no: oggi non diremmo “interessante“, ma “accattivante“. Perché le cose ormai o hanno il potere di catturare anche il più svogliato e distratto dei lettori, o non hanno ragione d’essere messe online.

Chissà cosa ne penserebbe Montanelli, che per avere scritto dodici volumi dedicati alla Storia d’Italia venne additato, accusato, messo al muro e probabilmente anche ridicolizzato. Leggere LA STORIA di Indro Montanelli o, per essere precisi LA STORIA D’ITALIA, equivale a togliersi lo sfizio. Quel guilty pleasure, sempre come preferiremmo dire oggi, di scoprire cosa contengono quei libroni collezionati con Il Corriere e messi in bella mostra nel soggiorno di famiglia. Penso che per molti, la sensazione aprendo questi libri sia stata così. Rompere il tabù di polvere e arredamento, per spostare l’oggetto libro dalla sfera della suppellettile decorativa, al suo legittimo regno. Quello delle storie da raccontare.

Estate 2021: finalmente, dopo mesi di attesa, rompo l’idillio dello scaffale e mi decido ad aprire il primo volume. Anzi, l’esatto opposto… tentenno. “Da dove si comincia?” LA STORIA di Indro Montanelli va letta dal Crollo dell’Impero Romano d’Occidente, oppure dalla nascita della civiltà greca? Tra una rovina e un ingresso nella cronologia del mondo, ho preferito il secondo. STORIA DEI GRECI, poi STORIA DI ROMA e infine il primo volume di STORIA D’ITALIA. Sono sopravvissuta alla lettura allegramente e senza troppi danni collaterali. Eccezion fatta per uno, lo stesso tarlo che a distanza di settimane mi sprona a scrivere: “Come diamine ha fatto?!”

Il primo volume di LA STORIA D'ITALIA, accompagnato da LA STORIA DEI GRECI e da LA STORIA DI ROMA

Già… come diamine ha fatto Montanelli a entrare nel vivo di un’infinità di mondi, vite e uomini, letteralmente un secolo dopo l’altro e a rendere tutto così terribilmente irresistibile? Quando di mestiere scrivi, ma non fai lo scrittore nel senso comune del termine, ti tocca piegare la scrittura un po’ a tutto. Argomenti che normalmente t’interessano, come questioni di cui tendenzialmente faresti volentieri a meno. Oppure – e questo forse è ancora più difficile – ti tocca scrivere di ambiti che muori dalla voglia di approfondire, ma lo devi fare mantenendo una forma diversa da quella che vorresti poter scegliere tu. E questo perché non stai scrivendo per passatempo, né per indirizzare una lettera a te stesso. Lo fai perché devi e devi scrivere qualcosa che interessa al cliente, in un modo che possa attirare l’attenzione del suo cliente.

Ecco perché penso che leggere LA STORIA di Indro Montanelli sia una grande lezione per chi ha scelto il mestiere di scrivere. Montanelli, da grande penna qual era, prima di mettersi a scrivere la sua Storia d’Italia, si deve essere fermato per chiedersi: perché? E soprattutto: per chi? Avrebbe scritto alla massa, a quell’Italia degli anni Cinquanta che bramava una cultura. Il mondo era cambiato, nuove opportunità si stavano schiudendo per la nascente classe media, ma ecco che alla massa mancava ciò che l’élite aveva sempre avuto: la conoscenza, da cui la consapevolezza, delle proprie radici.

LA STORIA, di Indro Montanelli

Non credo sia un discorso di prese di posizione partitiche. Anche se, a ben vedere, il tanto vituperato Montanelli scrivendo questa Storia d’Italia fece il gesto più “di sinistra” e democratico che gli si potesse chiedere. Dare, cioè, gli strumenti alla massa per conoscere se stessa. La propria identità, il proprio percorso attraverso i secoli. Sapeva che, per farlo nel modo giusto, avrebbe dovuto infrangere più di un tabù. Avrebbe cioè dovuto rendere accessibile ai molti qualcosa di accademico. Togliere l’appannaggio esclusivo della Storia con la esse maiuscola ai salotti buoni degli eruditi. E ci riuscì.

Senza far troppo spoiler – oggi diremmo così, ma riferito all’ambito storico fa davvero molto ridere – ecco perché amo quest’opera. E perché spero di riuscire presto a leggere anche il resto dei volumi. Perché ha carattere. Il carattere semplice e schietto di chi più che sui quando, si sofferma sui chi e sui perché. Dà un volto alle persone del passato, che improvvisamente smettono di essere meri personaggi di cronache vuote, asettiche. Oltre il susseguirsi di date e battaglie, verso l’aneddoto e l’estremo piacere di raccontarlo. Il segreto de LA STORIA di Indro Montanelli, così come l’ingrediente magico della scrittura ben riuscita, sta tutto qui: entrare nella testa del lettore e scrivere di conseguenza. Semplice, ma non troppo.

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