LINCEDISETA, di Sandra Simonetti: copywriter freelance in Valle Camonica e in provincia di Brescia. Comunicazione, scrittura, traduzioni, social media, ufficio stampa.
La paura d’incontrare davvero sé stessi. È uno degli appunti che mi sono segnata dopo aver letto “QUANDO CAMMINO CANTO Il cammino come esercizio di trasformazione”, di Maria Corno. Ho segnato questa frase insieme a molte altre: tanti passi a piè lento e insieme sospinto che permettono di arrivare alla stessa, mutevole meta. Quel sé stessi che sempre cerchiamo e che ci accorgiamo essere, appunto, oggetto costante di mutamento, di trasformazione. Non ho ancora avuto il piacere d’incontrare Maria per chiederle: di quale paura ci si libera davvero durante un cammino? Intendo qui l’atto fisico di camminare, d’imboccare un antico (o nuovo) tracciato da disegnare e ridisegnare a piedi. Sono tante in realtà le domande che le vorrei porre e – presto – ne avrò occasione:
Mentre scrivo provo ad ascoltare qualche canto tradizionale ebraico, partendo da una playlist su Spotify. Questo perché il cantare del titolo non è una semplice metafora: Maria Canta, quando cammina. Non sempre, non per forza. Ma ci sono tratti di strada in cui, oltre allo zaino sulle spalle e ai cerotti sulle vesciche, le immancabili calze di ricambio e il suo frammento di quarzo citrino, è proprio il canto a farle compagnia. Non penso che durante la presentazione di mercoledì 15 novembre, presso il polo UNIMONT a Edolo, l’autrice si metterà a cantare. Ma, se così fosse, ne sarei felice.
Apro e chiudo una mia piccola parentesi. Me ne prendo il diritto in virtù del fatto che “Quando cammino canto” è un libro fortemente intessuto di vita. E la vita, così come emerge dal testo, è un grande mosaico d’istanti. Istanti che si trasformano in aneddoti. Non faccio nomi, non voglio tradire la fiducia di chi ha vissuto con me queste vicende. Ma ricordo un paio di momenti in cui quest’estate, in Armenia, il canto di temi antichi, melodie intrise di ogni possibile significato, ha riverberato tra le pietre chiare dei monasteri. Istanti che varcano le soglie dell’Infinito.
il selvatico, la bellezza, l’amore. Non c’è salute senza di essi.”
Maria Corno
Momenti estremi, in cui se ci fosse stato un Battiato avrebbe vissuto una delle sue folgorazioni. Io ovviamente non sono il Maestro e nemmeno una camminatrice provetta. Ma la digressione mi serviva proprio per stare sul tema: la potenza della voce umana che entra in contatto con quanto la circonda e ci si unisce, amplificando Bellezza. Ecco, penso che camminare, da come ho inteso il libro di Maria Corno, sia anche questo: mettersi in relazione con l’Universo. E con quest’aspetto – universale, appunto – siamo tutti più o meno in grado di empatizzare. Di relazionarci.
Così lungo la via Francigena, in cammino verso Santiago, scarpinando leggeri su antiche vie carovaniere, collegando le propaggini d’Italia con le suggestioni delle coste turche. O addentrandosi nel profondo. Fino alla fine del mondo, oltre Santiago. A cercar conchiglie e riparo interiore dalla necessità di porre fine ad un accadimento tanto semplice quanto glorioso. Quell’essersi messi in cammino, che oggi rappresenta – non a caso – anche una scelta rivoluzionaria.
Per tempi, modi e intenzioni: vissuta con l’autenticità necessaria al fine di sorpassare le mode, il semplice trekking, il mordi e fuggi del turista distratto o troppo preso dalla meta e troppo poco dallo spostamento. Leggendo, mi sono ritrovata persino in Giappone, girando in tondo per tornare – più centrata – al punto di partenza. Pellegrinaggio? Anche. Finché è alla nostra Anima che rendiamo omaggio, santificandola con la potenza dell’incontro. Con l’apertura all’altro, al Fato, a ciò che non sta scritto che sulla polvere della strada.
Il Cammino mette in movimento le storie. Ognuno porta e svolge la propria, passo dopo passo.”
Maria Corno
Camminare, dunque. Aprendosi agli angeli che, laicamente o misticamente, s’incontrano lungo il cammino stesso. Alle coincidenze, che coinvolgono il genius loci del posto che si sta attraversando, oppure i suoi abitanti. O, magari, altri camminatori. Persone, volti e voci che si possono incontrare solo lungo la via, non a caso dai più ritenuta metafora di vita. Il cammino: una forma di meditazione, un’espressione di preghiera interiore, uno strumento potentissimo per rispondere alle necessità del proprio benessere. Fisico e mentale, ma anche – perché no?! – spirituale.
Sono felice d’incontrare Maria domani, di poterla intervistare al termine della presentazione. Di accogliere il tono entusiasta della sua voce. Anche quando, semplicemente, da ferma, parla. Immaginandola però sempre e ancora in movimento. Alla ricerca, forse, della ricerca stessa. Una quête che ci porta, per definizione, fuori dalle nostre quattro mura. Fossero anche bastioni mentali, o le siepi fortificate del nostro giardino. In compagnia o in solitudine, lungo le strade del mondo.
Da come impostiamo la nostra esistenza si evincono molte cose. Un po’ come quando entriamo in casa di qualcuno e sbirciamo la libreria per cercare di farci un’idea più precisa – intima e privata – della persona che siamo andati a trovare. Allo stesso modo se osserviamo da vicino il comportamento di un estraneo ci sembrerà già di conoscerlo almeno un pochino. Ma l’affermazione è vera anche in un altro senso. Il modo in cui decidiamo di trascorrere il tempo che ci è concesso esercita una grande influenza sulla maniera in cui guardiamo alle cose. E, per converso, su come le affrontiamo. Quando Alessandro mi ha portato il suo “Libera la tua luce e volta pagina”, non sapevo con esattezza che il libro parlasse proprio di questo.
Urge fare un paio di passi indietro. Il primo riguarda il tipo di letture che sto portando avanti in questo periodo. Il secondo ha invece a che fare con il contesto. Parto dall’ultimo, così sputo il rospo. Il contatto con Alessandro Comella è avvenuto grazie alla mente e al cuore di chi stava organizzando una serata a Berzo Demo. Sabato 11 novembre faremo un aperilibro in cui sarò in dialogo con l’autore e a seguire ci sarà un piacevole aperitivo con prodotti del territorio. Allego subito la locandina per piacere di chiarezza:
Sono molto grata di essere stata coinvolta nell’iniziativa, soprattutto per gli argomenti che emergeranno nel corso della serata. Sto giusto riguardando la scaletta delle domande, perché ci sono molti modi per leggere questo libro. E – tanto per tornare al punto uno – confesso di essermi approcciata alla lettura in un periodo in cui la mia testa era, almeno in parte, su altro. Ero infatti tutta presa da teorie sullo sviluppo delle religioni, roba al limite dell’Antropologia. E poi mi sono ritrovata tra le mani questo “Libera la tua luce e volta pagina”. All’inizio, non sapevo bene che pesci pigliare. Così ho affrontato la cosa di petto e ho cominciato a leggerlo praticamente senza fermarmi, in un paio di riprese. Si è rivelato un errore, ma solo in parte.
L’errore – tutto mio – sta nell’avere letto troppo rapidamente una cosa bella. L’altro lato della medaglia è che quando un libro scorre, scorre; nel senso che è un piacere leggere qualcosa di fluido, che non c’impianta il cervello ad ogni paragrafo. Scrivo questa cosa perché penso che possa essere un buon consiglio per chi deciderà di leggere il testo di Alessandro. Va letto piano. Con calma. Per incarnare al meglio il principio di essere nel presente, nel qui e ora. Per lasciarsi assorbire dalle esperienze e dagli spunti che l’autore ha scelto di condividere con chi legge. E se da un lato è vero che ormai tutti scrivono e che tutti pubblicano, è bene sottolineare anche che non tutti hanno il coraggio di mettersi a nudo.
A conti fatti, siamo noi a scegliere quale importanza dare agli avvenimenti che incontriamo, e a consentirgli o meno di interferire con la nostra felicità.
alessandro comella
Alessandro della sua esperienza racconta, con grande delicatezza, anche i momenti più complicati. Lo fa senza entrare troppo nel dettaglio, lasciando però intendere al lettore quanto siano stati bui. E leggendo ci si accorge del pregio del testo: la sincerità. Posso affermarlo solo con cautela, non avendo conosciuto l’autore prima della lettura del libro, se non per un breve incontro (breve per durata, intenso per contenuti). Ma in “Libera la tua luce e volta pagina” fa una cosa che non tutti avremmo il coraggio di fare. Analizza il proprio vissuto, tracciando i contorni di un progressivo percorso di miglioramento. Un miglioramento in cui Alessandro è stato affiancato da persone competenti, che a più riprese e in più occasioni gli sono state di supporto quando era il momento di fare ciò che il titolo così bene esprime: voltare pagina.
Il genere umano immagino scelga di cambiare per sopravvivenza. A volte però, l’intenzione profonda di dare un nuovo corso alla propria esistenza arriva solo quando si è al limite. Oppure, peggio ancora, non arriva mai. Per questo penso che leggere l’esperienza – diretta e assistita – di una persona che ha vissuto periodi di buio possa essere di grande aiuto. Per tutti. M’interrogo spesso sul ruolo delle storie personali e del perché andrebbero diffuse. Del perché qualcuno dovrebbe poter voler leggere la vita di un’altra persona quando questa non è comunemente annoverata tra i personaggi famosi. E spesso mi ritrovo a pensare che ci salviamo – anche – a vicenda.
continuando a scaricare la responsabilità al di fuori di me mi sarei completamente tolto il potere di agire per cambiare la situazione.
alessandro comella
Recependo l’esperienza di un altro essere umano traggo spunti, temi validi al mio personale percorso. Posso anche scegliere d’ignorarli, di tirare dritto per la mia strada. Ma, prima o poi, il conto si presenta. Di Alessandro ho trovato intelligente il fatto di partire dalla lettura dei propri momenti bui apponendovi una nuova etichetta: quella di “innesco” verso la crisi e da lì il nuovo. E il fatto di riconoscere, passo passo, come osservare i propri demoni interiori, studiarne le forme, per poi consentire alla propria vita di prendere una direzione diversa. Al termine di ogni passaggio significativo Alessandro inserisce inoltre una breve sosta. Qualche domanda, uno spazio pensato affinché il lettore si chieda se non ci sia qualcosa in cui si sente risuonare, che lo riguarda in prima persona.
Il disagio nella nostra società può assumere molte forme. Quella però con cui mi sento di avere avuto maggiori riscontri a livello di letture e di conoscenze riguarda il famigerato equilibrio tra vita privata e lavoro. “Libera la tua luce e volta pagina” si concentra molto su quest’aspetto. Su come necessitiamo di più tempo libero e di come, quando finalmente prendiamo coscienza di questa necessità, poi fatichiamo per ottenerlo. Ma la cosa più assurda è che, una volta conquistato, questo sacrosanto diritto al coltivarsi, all’avere del tempo da spendere propriamente per sé, rischiamo di non godercelo. Sono molti i tranelli della mente in cui corriamo il rischio d’incappare. Molte le sfide di fronte alle quali la vita ci mette, partendo proprio da ciò che la testa c’impone. Ciò che dovremmo essere, ciò che dovremmo fare.
[…] Oltre a ciò, l’aspetto ancora più importante rispetto alla propria crescita è la possibilità di costruirsi un gruppo di pari, composto da tutte quelle relazioni di valore costruite nel tempo grazie ai vari percorsi. Persone con interessi, esigenze e ambizioni simili alle tue, ma con storie ed esperienze molto diverse, da integrare nella tua.”
alessandro comella
La testimonianza di Alessandro parla di un’esperienza: la sua. Di chi lo ha aiutato a riscattare, tra le altre cose, anche la capacità di godere del proprio tempo senza trascurare il mondo in cui siamo tutti immersi. Di come ci si può rimettere al centro. Ma ciò che più mi ha colpita della sua storia è stata la determinazione con la quale ha trasformato le proprie azioni e i propri pensieri. Costanza, perseveranza, testardaggine (in senso positivo): varie declinazioni dello stesso elemento. Un elemento senza il quale è pressoché impossibile cambiare il corso della propria esistenza e arrivare così – finalmente! – a voltare pagina. Per cambiare vita servono nuove abitudini. Una cosa tanto semplice e immediata quanto difficile poi all’atto pratico.
La storia di Alessandro è di diritto una storia luminosa perché racconta, senza la pretesa di mettersi in cattedra a insegnare. Lo fa con delicatezza e determinazione, partendo dal disagio, osservandolo e arrivando a delineare nuovi contorni per la propria esistenza. Anche se sono poco avvezza a questo genere di letture, sono felice che ci sia chi ha il coraggio di raccontare non solo il proprio buio; ma soprattutto il percorso che ha trovato più consono e appropriato per liberare la propria luce!
La permanenza del tatuaggio e l’impermanenza della farfalla. Unire i due aspetti è una cosa che fanno in molti: caviglie, polpacci, polsi, spalle, scapole. Leggere “Il Circolo delle Donne Farfalla”, romanzo di Fiori Picco, mi è stato utile per creare mentalmente un nuovo tipo di legame tra questi due elementi. E qui entra in gioco l’Antropologia.
Ho incontrato l’autrice al Festival dell’Oriente di Brescia l’ultimo fine settimana di febbraio 2023. Il portamento esile, il viso minuto, la voce quasi flebile davano l’impressione di un essere in lieve contrasto con la confusione del momento. Alle fiere c’è sempre un po’ di confusione. Soprattutto quando i sensi sono rapiti in simultanea da nuvole d’incenso e dalla risonanza che si crea tra le campane tibetane. Ho dato un occhio veloce ai libri e ho colto l’invito alla presentazione dell’ultimo. I volti di quattro donne sembravano contorcersi sullo sfondo azzurrato della copertina. Era una storia che mi andava di ascoltare, ma non sapevo come si sarebbe evoluta la giornata.
E poi, come spesso mi accade, ci sono capitata. Un po’ l’ho cercata, un po’ ci sono incappata. Forse l’autrice si ricorda di me come di quella che ha cercato di collegare i cavi del proiettore senza ottenere grandi risultati. Speravo di poter dare una mano. Anche per sentirmi parte di una presentazione letteraria sulla Cina, un mondo che un tempo studiavo. L’Asia ha avuto molti modi per chiamarmi. Questo libro l’ha fatto con la stessa delicatezza dell’autrice: con un taglio semplice e diretto. Con una narrazione che mi ha sorpresa non tanto per la storia in sé, quanto per il tema che affronta. Se non avete letto il libro, da qui in poi potreste trovare un po’ di spoiler, pensateci bene prima di proseguire.
Quando parlavo sopra del legame tra il tratto indelebile dell’inchiostro e la leggerezza impermanente della farfalla, stavo pensando ai visi di quelle quattro donne. Quelle in copertina a “Il Circolo delle Donne Farfalla”. Che, pur non essendo le protagoniste del libro, in qualche modo lo diventano. Personaggi loro malgrado di una storia vera e anche molto triste. Quella di una lontana provincia cinese confinante con il Tibet, dove le donne dovevano subire un tatuaggio sul volto per motivi di protezione. Spirituale, come si capisce dai primi capitoli. Ma anche materiale, come si evince più avanti.
Un tatuaggio costituisce un marchio indelebile. Averne uno sul viso vuol dire accompagnare i propri anni con un riflesso quotidiano nel quale non ci si riconosce più. Dove è necessario andare oltre le linee del disegno d’inchiostro per ritrovare le sembianze dei propri lineamenti. E si finisce per il confondersi con il corpo affusolato e le grandi ali di una terribile farfalla. Eppure, in alcuni momenti della Storia, il genere umano ha scelto – e spesso imposto – la deturpazione come corazza. Una forma di protezione austera e inflessibile, immutabile se non per l’incalzare del tempo, che alle tracce d’inchiostro aggiunge le rughe dell’animo.
Non voglio soffermarmi troppo sulla storia – una ragazza che cerca sé stessa andando lontano – né entrare nel dettaglio delle usanze locali (sarebbe davvero troppo spoiler). Anche perché, ciò che davvero mi ha affascinata del libro non è stato lo stile narrativo, né la scoperta specifica di questo popolo. È stata la presa di coscienza di quel meccanismo che, per giustificare un atto difficile e dalle conseguenze immutabili, sceglie di entrare nella sfera del sacro. È strano pensare a come la necessità della salvezza terrena si possa legare indissolubilmente alla promessa della salvezza spirituale.
Una sorta di “far di necessità virtù” che possiamo trovare, attraverso i secoli e nelle forme più svariate, in diverse aree del globo. Protagonista, ancora una volta, è la donna. La donna che infligge, la donna che subisce. Come non pensare ad altre pratiche rischiose quali l’infibulazione? Pratiche per le quali è sempre pronta una giustificazione. Ma, come in tutte le cose quando si parla di cultura, è necessario procedere con guanti protettivi e dei bei piedi di piombo.
“Il Circolo delle Donne Farfalla” mi ha fatto venire in mente anche un’altra usanza, in passato molto diffusa. Quella di isolare la donna durante il periodo del sangue mensile. Molti studiosi ritengono si trattasse non tanto di una forma di allontanamento per dettami di impurezza religiosa. Anzi. Tale impurezza potrebbe essere insorta in un secondo momento, a forma di tutela verso una donna indebolita dalle mestruazioni e, pertanto, bisognosa di maggiore riposo e introspezione. Una credenza estraniante giustificabile con un’originaria ricerca di protezione, quindi.
Eppure, quando un atto discriminatorio si compie, inevitabilmente esso si trasforma in sopruso. Sia che venga praticato con l’ostracismo sociale, con il rasoio, che con dell’inchiostro. Quanto è giustificabile sulla base delle necessità concrete di protezione? Quando invece è destinato a diventare una forma di prigione dalla quale la donna raramente può fuggire?
Credo che nessuno sano di mente nel nostro Occidente contemporaneo vorrebbe sottoporre una ragazzina ad un supplizio feroce come quello di tatuarle sul volto un’orrenda farfalla. Nemmeno con la promessa che questa la condurrà un giorno sana e salva verso il regno degli spiriti. Infatti, “Il Circolo delle Donne Farfalla” racconta la storia di una terra lontana. Forse già questo rappresenta l’indizio per una chiave di lettura.
Per comprendere se esistono delle ragioni che vanno oltre la superstizione o la discriminazione – e non è detto che ci siano – bisogna guardare più da vicino. È necessario osservare nel dettaglio i volti di quelle donne. Perdersi tra le chiazze scure lasciate dall’inchiostro. E da lì, risalire alla mano che si è presa la briga d’infliggere tanto dolore. Bisogna addentrarsi, immergersi in quell’inchiostro. Altrimenti continueremo a vedere solo delle donne deturpate, oppure dei soggetti affascinanti degni di figurare su delle riviste di Antropologia. Serve provare a cercare tutti i protagonisti della vicenda, raccogliendo le loro storie personali e le altrettante storie che questi hanno da raccontare. Ascoltare ogni ragione per dipanare il bandolo della matassa. Ammesso e non concesso che questa matassa poi ci appartenga o competa davvero.
Certo, il risultato resterà comunque terribile. Ma forse smetteremo di etichettare queste donne unicamente come vittime di un’usanza barbara e incivile. Accoglieremo, e poi eventualmente respingeremo, la possibilità che si sia trattato di un rito dalle valenze sciamaniche di protezione.
Penso che valga sia per le donne con il tatuaggio della farfalla che troviamo nel libro di Fiori, che per molte altre situazioni. Ed è per questo che ho apprezzato il libro. Perché la giovane protagonista parte con un’idea ben salda e si lascia guidare dalla curiosità, dalla voglia di saperne di più, dalla sete di comprendere. O, almeno, di provarci. Comprendere cosa significhi vivere con una mutilazione e farci i conti ogni giorno. Comprendere il valore che la donna a cui è stata inflitta attribuisce a tale mutilazione. Leggere i caratteri salienti della sua cultura e come questi sono mutati nel tempo. Approfondire le motivazioni sociali e materiali alla base dell’imposizione.
Forse allora il marchio imposto assumerà nuovi contorni, un’altra sfumatura. Non smetterà di essere terribile, profondamente ingiusto. Questo no. Ma ci fornirà, suo malgrado, gli strumenti per comprendere l’origine di una credenza. Soltanto allora, se di nostra competenza, saremo eventualmente autorizzati a scalfirla, preservarla, eluderla, rimpiazzarla, oppure… estirparla per sempre.
Le circostanze della nostra vita a volte sono collegate tra loro da un filo rosso. Altre volte, da un cordone. È un rosso cordone simbolico a collegare i tappeti esposti al Castello di Brescia. Appartengono alla collezione Zaleski di Fondazione Tassara e sono gratuitamente accessibili al pubblico in occasione di Brescia e Bergamo Capitali della cultura 2023. Il filo rosso di questa storia passa attraverso il Turkestan. Si srotola accarezzando i confini interni di una regione molto vasta, antica e a lungo oggetto degli intrecci della Via della Seta. Luoghi carichi di vissuto, trama, ordito e lunghissime tradizioni di artigianato locale che si riannodano a correnti religiose e civiltà oramai scomparse.
Il Turkestan culturale in sé è di difficile definizione. Una realtà più storica che geografica, più identitaria che chiaramente tratteggiabile su una mappa. Tant’è che, osservando la cartina e andando a tentoni lungo le rotte carovaniere dell’Asia centrale, tra gli Stati che ora colmano gli spazi di questa grande regione dovremmo riconoscere anche l’Armenia. Quell’Armenia che da terra che lambiva i tre mari si è poi tramutata in millet dell’Impero ottomano, in Repubblica sovietica prima e – ora – in Paese alla ricerca di una propria sicurezza territoriale. Certezze che il ritorno brusco e aggressivo della Geopolitica post 1989 hanno messo duramente in crisi. Ma torniamo ai tappeti e al nostro famoso filo rosso, che sembra intrecciarli tra loro insieme a creazioni tessili di artisti come Alighiero Boetti e Herta Ottolenghi Wedekin, proiezioni multimediali e installazioni di arte contemporanea a cura di LETIA-Letizia Cariello.
Ho visitato l’esposizione in un afoso pomeriggio di agosto. L’intera città sembrava essersi fermata, un po’ per la calura estiva, un po’ per la settimana dell’Assunta. Camminare tra tappeti di lana (ma anche seta, fili d’argento e d’oro) rafforza il senso di mancanza d’aria. Ma la bellezza si sa, ha il potere di rinvigorire anche i sensi più duramente colpiti dal caldo. Ed è in questa bellezza che ho ripensato appunto all’Armenia, la grande assente di questo percorso tra i tappeti turkmeni. Una terra lontana cui mi legano un viaggio molto recente e una serie di letture che ho fatto per colmare le lacune sulla sua storia, la sua cultura. Un’operazione complessa che temo si protrarrà con il tempo, in quanto sto considerando di tornare in Asia centrale. Ma un’operazione al contempo necessaria, che ha portato alla luce della mia ignoranza tutta una serie di informazioni legate proprio ai tappeti.
Quando sono stata a Yerevan, il mese scorso, purtroppo non ho avuto il tempo di ammirare quest’incredibile prodotto dell’artigianato locale. Ho visitato il vernissage, il mercato all’aperto nel cuore della capitale. Ma i tappeti li ho solo adocchiati, distratta com’ero da quella sensazione d’urgenza data dalla foga di cercare dei souvenir quando il tempo scarseggia. In sintesi, i tappeti li ho solo intravisti da lontano, conscia di non potermi soffermare anche su quella meraviglia. Avevo però sentito degli accenni alla maestria di chi li produce e alla bellezza dei loro motivi.
È stato rientrando a casa che ho preso in mano degli articoli di approfondimento. Spulciandoli, è emerso quanto questa tradizione faccia parte del sostrato culturale e storico del popolo armeno. In maniera così profonda che c’è chi osa affermare che l’esportazione dei tappeti locali coincida con il massimo contributo culturale-artistico dato dall’Armenia al mondo. Mi sono tornate in mente altre letture, in cui il tappeto viene visto come elemento di tessitura che connette madre e figlia, o comunque che è di pertinenza prettamente femminile. Secondo alcuni, un retaggio di antiche culture antecedenti le religioni del Libro.
Per chi vive in zone aride, il tappeto è la terra su cui decidi di costruire la tua dimora ogni volta che pianti la tenda. Per altri è il riferimento sacro, il terreno di appartenenza spirituale sul quale prostrarsi per conservare la fede. A tale proposito, c’è chi ipotizza che l’attaccamento dei musulmani all’utilizzo del tappeto sia d’ispirazione armena. Volendo scavare quindi, la tradizione armena dell’intrecciar tappeti pare essere di talmente alto rilievo dall’avere plasmato il senso dei popoli limitrofi riguardo a questa suppellettile. Per questo nella collezione esposta mi aspettavo di trovare almeno un tappeto che provenisse da questa preziosa terra.
Invece no, né in castello né nel ridotto del Teatro Grande di Brescia, dove l’esposizione prosegue in un’altra mostra con i tappeti adibiti alla preghiera. Ma forse, più che leggerla come una mancanza, va vista come una conferma. Ciò che è di fatto assente, immagino sia presente altrove. In quella parte cioè della collezione privata che non è stata esposta. Ma soprattutto, nell’origine silenziosa del processo di tradizione e tessitura che si dispiega sotto gli occhi del visitatore.
In castello si segue un lungo cordone rosso che segna il percorso da seguire. Un’installazione a sua volta artistica che consente di osservare i tappeti da vicino senza essere costretti a passarci sotto. In teatro invece, i tappeti sono appesi alle logge su due livelli, creando giochi simmetrici e d’integrazione-contrasto con il contesto architettonico. Rossi, blu, tinte panna, verdi si alternano seguendo motivi geometrici. Sono raffigurazioni stilizzate, tra le quali non fatichiamo a riconoscere il simbolo solare della svastica, lanterne stilizzate, rose, uccelli, motivi a corna d’ariete, animali fantastici, anfore (simbolo anch’esso femminile), addirittura un paio di splendide farfalle.
Ma soprattutto, in questo gioco di simmetrie schematiche e nodi che azzardano qualche libertà in più c’è il vero protagonista di questa narrazione di lana e seta: il melograno. Una presenza talmente forte da diventare una costante. Il melograno è simbolo dell’Iran, oltre che dell’Armenia. Un elemento identitario così forte per i popoli dell’Asia centrale che non c’è da stupirsi se è presente anche nella cultura cristiana, per non parlare di quella cinese. È il frutto dell’abbondanza, del sacrificio, del martirio, della fertilità che nasce e rinasce dal donarsi in modo completo. Per non parlare di ciò che ha rappresentato per la giovane Persefone e il suo soggiorno nell’Ade. Un simbolo forte e bellissimo la cui carica si sprigiona su più livelli. E la stanza del castello adibita ad ospitare quel ramo della collezione ad un certo punto potrebbe davvero ricordare un giardino, come il titolo stesso dell’esposizione suggerisce.
Un Eden fatto di simboli intrecciati a mano, con pezzi che ripercorrono i secoli e le varie tappe dell’antica Via della Seta. Khotan, Buchara, Samarcanda. Il Belucistan, l’Azerbaijan, il Daghestan, il Kurdistan, lo Xinjiang. Un’area vastissima accomunata – tra le altre cose – da un artigianato capace di smuovere gli animi di mercanti e ricchi acquirenti. I tappeti di queste terre, qualsiasi sia l’uso al quale fossero un tempo adibiti, conservano un intreccio di mondi. Il melograno ne è appunto il protagonista. Ma dubito di avere le competenze necessarie a cogliere tutti i risvolti di questa narrazione di filati.
Se torno con la mente alle letture sull’Armenia, ricordo un passaggio in cui si faceva riferimento al simbolismo presente proprio nei tappeti. Simboli ovviamente stilizzati e tanto bellamente camuffati da riuscire a passare per “innocui” agli occhi di osservatori esterni o, e questo era il motivo della copertura, appartenenti a culti diversi. Soltanto gli iniziati che avevano ricevuto una formazione in merito erano davvero in grado di decifrarne i mille risvolti. Di leggerne il messaggio per intero.
Esistono diversi modi di approcciarsi a un prodotto artigianale come un tappeto. Uno di questi è forse quello più semplice e potente, capace cioè di catturare l’attenzione di tutti, anche di quanti non hanno un occhio avvezzo a letture di carattere artistico o antropologico. Questo “modo” è dettato dalla bellezza. E di bellezza ne ho trovata molta passeggiando tra i tappeti del Turkestan esposti in castello e in teatro a Brescia. Un motivo per il quale mi sento riconoscente verso chi si è prodigato nel metterli a disposizione del mio sguardo, così come dello sguardo di tutti i visitatori che, a vario titolo e attratti dal motore della curiosità, ne stanno scoprendo le trame.
Trame che raccontano della vita, sia essa quella ideale-idealizzata dei popoli che li hanno creati, oppure della vita intesa come quotidiano reale dei giorni trascorsi. Di sicuro quella che si legge tra un nodo di seta e l’altro è una narrazione antica, coerente e molto potente. Una narrazione che è bello immaginare prosegua anche al di fuori degli spazi adibiti alle due mostre. Soprattutto quando a pochi passi dall’ingresso di una di esse si erge un meraviglioso albero. Non sarà certo l’Axis mundi – l’Albero della vita – ma è a parimerito carico di fronde, foglie e – meraviglia! – di tanti frutti che si avviano alla maturazione. Sono anch’essi melograni, ancora un po’ acerbi ma eternamente meravigliosi.
Dirette, intense, cruente. Talvolta persino irriverenti. Fiabe faroesi, raccolta edita da Iperborea con traduzione e postfazione di Luca Taglianetti, apre uno spiraglio importante sull’immaginario collettivo – e la memoria storica – di questo popolo lontano. C’arrivo tardi, lo confesso. Il libro è uscito da quasi cinque anni, con la prima edizione nel novembre del 2018. È stato dato alle stampe dopo Fiabe lapponi (2014), Fiabe danesi (2015), Fiabe islandesi (2016), Fiabe svedesi (2017). Una lunga carrellata di ricerca letteraria per scavare nel folklore nordico. Ho una seconda confessione da fare: non ho ancora letto gli altri volumi di questa serie, né le opere precedenti né quelle pubblicate in seguito (dedicate alle fiabe norvegesi, groenlandesi, finlandesi e della terra dei Sami). Se ci sono arrivata è, come spesso accade coi libri, per caso e fortuna. O quasi…
Da qualche tempo e in maniera del tutto inaspettata, le fiabe sono tornate a fare parte dei miei scaffali. Tutto è iniziato con un regalo: Le fiabe interpretate, di Marie-Louise von Franz. Un libro che si collegava ad altre letture di inizio anno, legate al bestseller Donne che corrono coi lupi. Per questo sono rimasta sorpresa quando in Armenia, in coincidenze del tutto fortuite, mi è finito tra le mani un volumetto in italiano dal titolo Fiabe armene. Forse un giorno avrò modo di raccontare anche come si è svolta questa scoperta inaspettata. Ma qui mi serve solo per dire che, se io negli ultimi mesi stavo più che altro cercando i miti e le leggende, erano le fiabe che stavano cercando me.
Fiabe faroesi, nelle sue 157 pagine, racconta di un popolo in cerca di un’identità propria e della sua salvaguardia. Una remota provincia della Danimarca aggrappata a isolotti di vento e roccia e a una natura probabilmente cruenta, forse anch’essa in cerca d’autore. Non sono mai stata nelle Isole Faroe. Posso solo azzardare delle ipotesi. Ma la cosa curiosa è come ora me le figuro nella mente, dopo aver letto i 28 racconti e il commento finale, di Luca Taglianetti. Il commento l’ho letto prima di completare la lettura delle storie. Avevo bisogno di contestualizzare, di avvalermi di qualche indizio in più per capire che cosa davvero stessi leggendo.
La sensazione era infatti quella di essermi imbattuta in racconti che dopo la formula di rito del famoso C’era una volta si tuffavano in episodi di brutalità, o di ironia ai miei occhi violenta, quasi estremizzata. Altri tempi, altri luoghi, ovvio. Ma pure facendo appello ad un certo relativismo culturale e alla consapevolezza della ferocia delle fiabe raccolte dai Fratelli Grimm, c’era qualcosa che non mi tornava. Per la maggior parte dei racconti, mi sembrava di trovarmi di fronte ad un tipo di narrazione lontana da molte fiabe di diverse culture. Persino il lieto fine spesso era soggetto a condizioni per me ben poco liete. Sentivo l’assenza di alcuni motivi ricorrenti. Quindi le parole del curatore mi sono state decisamente utili per contestualizzare il tutto.
Così, mi sono ritrovata in una gelida notte di gennaio. Una di quelle in cui fuori senti ruggire il mare a miglia di distanza e provi gioia per il tepore di una fiamma crepitante. Lì, attorno allo stesso fuoco, c’è la tua comunità d’appartenenza, che ogni sera d’inverno si plasma e riplasma in modo incessante, con un lento sciabordio d’onde di parole. Si tratta delle kvøldsetur, le sedute serali. E qui mi sembra doveroso citare direttamente il testo:
C’è una netta distinzione tra i narratori di leggende locali, per la maggior parte uomini, e le narratrici di fiabe, quasi esclusivamente donne anziane non sposate, non scolarizzate, che vivevano sole o lavoravano come serve.
L. taglianetti
Donne, per l’appunto. Donne il cui isolamento geografico avrebbe, come alcuni studiosi ritengono, contribuito alla trasmissione per via diretta di un repertorio locale autentico. Repertorio dal quale si evincono alcuni temi comuni al resto d’Europa (o quantomeno di una certa Europa centro-settentrionale), ma dai quali mancano aspetti comunemente presenti altrove. Un’originalità autoctona quindi.
Per un lungo tempo le kvøldsetur furono l’unico mezzo di trasmissione e di consapevolezza culturale nazionale, vero centro della vita sociale faroese.
L. taglianetti
Una narrazione quasi spontanea quindi, vecchia di chissà quanti secoli, cui aggrapparsi per non sprofondare in una progressiva assimilazione culturale data dal dominio straniero. Incredibile quanta poca importanza diamo alle fiabe e quanta rilevanza dovremmo invece riconoscer loro. Se non a livello letterario, almeno sul piano antropologico. Se il repertorio di fiabe di un popolo offre quindi elementi d’analisi importanti sulla sua cultura, tornando alla von Franz, vari temi ricorrenti delle fiabe lasciano intravedere aspetti di culti pagani. E, in particolare, di quella religione della Dea che a lungo deve avere caratterizzato anche il nostro continente, allora molto più giovane che vecchio.
Così, sono stata felice quando, addentrandomi verso le ultime fiabe, mi è sembrato di scorgere alcuni di questi elementi. Potrei avere preso un abbaglio, ma proverò comunque ad elencarne alcuni. Prima però penso sia giusto osservare più da vicino la terra di cui stiamo parlando. Come scrive Giulia Pretta su Critica Letteraria poco dopo l’uscita del libro: “Il piccolo arcipelago che conta diciotto isole, circa cinquantamila abitanti e ottantamila pecore, è quello delle Faroe. Selvaggio, riservato e schivo, ha per lungo tempo tenuto per sé il proprio bagaglio folkloristico.” Un bagaglio nel quale, è giusto dirlo, sono comunque presenti anche elementi comuni ad altre culture.
Taglianetti, nel commento finale al testo, fa riferimento a precedenti studi condotti sulle fiabe faroesi. Spesso, infatti, queste storie contengono influssi danesi, norvegesi e aspetti che le accomunano alle saghe e all’epica medievale islandese. Ci sono i giganti, le fanciulle rapite (spesso proprio da troll, giganti o affini) da ricevere in premio come spose una volta portate in salvo. Ci sono protagonisti la cui scaltrezza è suggerita già dal nome: Lokki resta decisamente simile alla divinità Loki. C’è la figura di Ceneraccio. Così come “l’importanza di ingraziarsi la benevolenza di spiriti e folletti, che con il loro intervento possono cambiare la vita e le sorti degli uomini”. Per non parlare della necessità di compiere una decapitazione affinché l’animale parlante torni alla sua forma originaria e l’incantesimo si spezzi, una volta per tutte. Tutti questi elementi sono presentati in maniera succinta, ma chiara, nel commento di chiusura al testo.
Ci sono però altri elementi che hanno attirato la mia attenzione oltre a quelli elencati sopra. Per osservarli, provo a tornare direttamente alle fiabe, di cui mi verrebbe da evidenziare il gesto di spezzare la schiena per fermare qualcuno. La sua colonna vertebrale, certo, ma in modo più esteso la sua stessa capacità d’agire e reagire agli eventi. La presenza del calderone/pentola quale strumento anche risolutivo delle vicende. Frasi come “si dice che i giganti potessero far calare o disperdere la nebbia a loro piacimento”. I dodici briganti del bosco, che mi chiedo se in qualche modo possano essere legati ai 12 mesi dell’anno. La vicenda della casa di frittelle che ricorda quella della strega di Hansel e Gretel. Per non parlare di montagne ed edifici di vetro, cespugli di rose, il cervo, o chiavi di ogni sorta.
Ma questi, a ben vedere, sono dettagli. Forse preziosissimi per capire meglio analisi e significato di queste storie, oppure totalmente inutili e fuorvianti. Ciò che emerge tra le righe di questa raccolta di fiabe faroesi è invece una coppia di temi, non per forza presenti insieme. Da un lato, un modo di fare che si può riassumere con l’esclamazione “Non potrà andar peggio delle altre volte” e che serve a legittimare il protagonista nel suo tentare (e alla fine riuscire) dove altri prima di lui hanno fallito. Una sorta di cos’abbiamo da perdere che, visto dall’esterno, mi sa tanto di popolo avvezzo alle catastrofi. Al doversi continuamente inventare e reinventare perché non ha alternativa. Dall’altro lato invece, ecco l’elemento ricorrente della bugia.
Spesso il protagonista è oggetto di delazione da parte di quanti lo invidiano e vorrebbero prendere il suo posto. In altri casi invece, è proprio il personaggio principale a ricorrere alla menzogna pur di rendere propizia la situazione per salvarsi la vita o riuscire nel suo intento. La bugia però resta. Verrebbe – ma sarebbe da verificare – quasi da considerarla quale espediente necessario a sopravvivere in un mondo in cui le avversità sono frequenti. Un contesto geografico, climatico, storico, in cui la scaltrezza è spesso necessaria o quantomeno presente. E, in quanto tale, se in un certo modo va tramandata o insegnata alle nuove generazioni in ascolto, dall’altro implica anche la capacità di farsi valere e di mettersi al riparo contro i soprusi.
E l’elemento femminile? Le fiabe faroesi non contemplano unicamente l’opzione della principessa da salvare. Ci sono anzi racconti in cui le streghe del bosco, oppure la madre del protagonista, permettono di arrivare felicemente alla conclusione. Ci sono persino protagoniste femminili, capaci di sbrogliare la matassa e di riuscire nell’impresa. Non a caso, una delle storie che più mi sono piaciute – e in cui a mio discreto parere sono presenti elementi sacri femminili in gran numero – è quella intitolata Il ragazzo che fu rapito dalla sirena. Non mi dilungo, solo questa tra tutte le brevi ma intense fiabe faroesi si meriterebbe un lungo approfondimento. Chiudo invece con un tema comune a tante fiabe, non solo di queste terre lontane, ma più in generale: la necessità di trovare e di ritrovare qualcosa.
Sarà una mia semplice suggestione, ma mi fa pensare a quanto di noi perdiamo per poi correre a cercarlo perché ci rendiamo conto che, senza quella componente del nostro essere, semplicemente non potremmo esistere. Un po’ come con le fiabe: perdute, ritrovate ed eternamente presenti.