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Tappeti di melograno

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Le circostanze della nostra vita a volte sono collegate tra loro da un filo rosso. Altre volte, da un cordone. È un rosso cordone simbolico a collegare i tappeti esposti al Castello di Brescia. Appartengono alla collezione Zaleski di Fondazione Tassara e sono gratuitamente accessibili al pubblico in occasione di Brescia e Bergamo Capitali della cultura 2023. Il filo rosso di questa storia passa attraverso il Turkestan. Si srotola accarezzando i confini interni di una regione molto vasta, antica e a lungo oggetto degli intrecci della Via della Seta. Luoghi carichi di vissuto, trama, ordito e lunghissime tradizioni di artigianato locale che si riannodano a correnti religiose e civiltà oramai scomparse.

Il Turkestan culturale in sé è di difficile definizione. Una realtà più storica che geografica, più identitaria che chiaramente tratteggiabile su una mappa. Tant’è che, osservando la cartina e andando a tentoni lungo le rotte carovaniere dell’Asia centrale, tra gli Stati che ora colmano gli spazi di questa grande regione dovremmo riconoscere anche l’Armenia. Quell’Armenia che da terra che lambiva i tre mari si è poi tramutata in millet dell’Impero ottomano, in Repubblica sovietica prima e – ora – in Paese alla ricerca di una propria sicurezza territoriale. Certezze che il ritorno brusco e aggressivo della Geopolitica post 1989 hanno messo duramente in crisi. Ma torniamo ai tappeti e al nostro famoso filo rosso, che sembra intrecciarli tra loro insieme a creazioni tessili di artisti come Alighiero Boetti e Herta Ottolenghi Wedekin, proiezioni multimediali e installazioni di arte contemporanea a cura di LETIA-Letizia Cariello.

Ho visitato l’esposizione in un afoso pomeriggio di agosto. L’intera città sembrava essersi fermata, un po’ per la calura estiva, un po’ per la settimana dell’Assunta. Camminare tra tappeti di lana (ma anche seta, fili d’argento e d’oro) rafforza il senso di mancanza d’aria. Ma la bellezza si sa, ha il potere di rinvigorire anche i sensi più duramente colpiti dal caldo. Ed è in questa bellezza che ho ripensato appunto all’Armenia, la grande assente di questo percorso tra i tappeti turkmeni. Una terra lontana cui mi legano un viaggio molto recente e una serie di letture che ho fatto per colmare le lacune sulla sua storia, la sua cultura. Un’operazione complessa che temo si protrarrà con il tempo, in quanto sto considerando di tornare in Asia centrale. Ma un’operazione al contempo necessaria, che ha portato alla luce della mia ignoranza tutta una serie di informazioni legate proprio ai tappeti.

Quando sono stata a Yerevan, il mese scorso, purtroppo non ho avuto il tempo di ammirare quest’incredibile prodotto dell’artigianato locale. Ho visitato il vernissage, il mercato all’aperto nel cuore della capitale. Ma i tappeti li ho solo adocchiati, distratta com’ero da quella sensazione d’urgenza data dalla foga di cercare dei souvenir quando il tempo scarseggia. In sintesi, i tappeti li ho solo intravisti da lontano, conscia di non potermi soffermare anche su quella meraviglia. Avevo però sentito degli accenni alla maestria di chi li produce e alla bellezza dei loro motivi.

È stato rientrando a casa che ho preso in mano degli articoli di approfondimento. Spulciandoli, è emerso quanto questa tradizione faccia parte del sostrato culturale e storico del popolo armeno. In maniera così profonda che c’è chi osa affermare che l’esportazione dei tappeti locali coincida con il massimo contributo culturale-artistico dato dall’Armenia al mondo. Mi sono tornate in mente altre letture, in cui il tappeto viene visto come elemento di tessitura che connette madre e figlia, o comunque che è di pertinenza prettamente femminile. Secondo alcuni, un retaggio di antiche culture antecedenti le religioni del Libro.

Per chi vive in zone aride, il tappeto è la terra su cui decidi di costruire la tua dimora ogni volta che pianti la tenda. Per altri è il riferimento sacro, il terreno di appartenenza spirituale sul quale prostrarsi per conservare la fede. A tale proposito, c’è chi ipotizza che l’attaccamento dei musulmani all’utilizzo del tappeto sia d’ispirazione armena. Volendo scavare quindi, la tradizione armena dell’intrecciar tappeti pare essere di talmente alto rilievo dall’avere plasmato il senso dei popoli limitrofi riguardo a questa suppellettile. Per questo nella collezione esposta mi aspettavo di trovare almeno un tappeto che provenisse da questa preziosa terra.

Invece no, né in castello né nel ridotto del Teatro Grande di Brescia, dove l’esposizione prosegue in un’altra mostra con i tappeti adibiti alla preghiera. Ma forse, più che leggerla come una mancanza, va vista come una conferma. Ciò che è di fatto assente, immagino sia presente altrove. In quella parte cioè della collezione privata che non è stata esposta. Ma soprattutto, nell’origine silenziosa del processo di tradizione e tessitura che si dispiega sotto gli occhi del visitatore.

In castello si segue un lungo cordone rosso che segna il percorso da seguire. Un’installazione a sua volta artistica che consente di osservare i tappeti da vicino senza essere costretti a passarci sotto. In teatro invece, i tappeti sono appesi alle logge su due livelli, creando giochi simmetrici e d’integrazione-contrasto con il contesto architettonico. Rossi, blu, tinte panna, verdi si alternano seguendo motivi geometrici. Sono raffigurazioni stilizzate, tra le quali non fatichiamo a riconoscere il simbolo solare della svastica, lanterne stilizzate, rose, uccelli, motivi a corna d’ariete, animali fantastici, anfore (simbolo anch’esso femminile), addirittura un paio di splendide farfalle.

Ma soprattutto, in questo gioco di simmetrie schematiche e nodi che azzardano qualche libertà in più c’è il vero protagonista di questa narrazione di lana e seta: il melograno. Una presenza talmente forte da diventare una costante. Il melograno è simbolo dell’Iran, oltre che dell’Armenia. Un elemento identitario così forte per i popoli dell’Asia centrale che non c’è da stupirsi se è presente anche nella cultura cristiana, per non parlare di quella cinese. È il frutto dell’abbondanza, del sacrificio, del martirio, della fertilità che nasce e rinasce dal donarsi in modo completo. Per non parlare di ciò che ha rappresentato per la giovane Persefone e il suo soggiorno nell’Ade. Un simbolo forte e bellissimo la cui carica si sprigiona su più livelli. E la stanza del castello adibita ad ospitare quel ramo della collezione ad un certo punto potrebbe davvero ricordare un giardino, come il titolo stesso dell’esposizione suggerisce.

Un Eden fatto di simboli intrecciati a mano, con pezzi che ripercorrono i secoli e le varie tappe dell’antica Via della Seta. Khotan, Buchara, Samarcanda. Il Belucistan, l’Azerbaijan, il Daghestan, il Kurdistan, lo Xinjiang. Un’area vastissima accomunata – tra le altre cose – da un artigianato capace di smuovere gli animi di mercanti e ricchi acquirenti. I tappeti di queste terre, qualsiasi sia l’uso al quale fossero un tempo adibiti, conservano un intreccio di mondi. Il melograno ne è appunto il protagonista. Ma dubito di avere le competenze necessarie a cogliere tutti i risvolti di questa narrazione di filati.

Se torno con la mente alle letture sull’Armenia, ricordo un passaggio in cui si faceva riferimento al simbolismo presente proprio nei tappeti. Simboli ovviamente stilizzati e tanto bellamente camuffati da riuscire a passare per “innocui” agli occhi di osservatori esterni o, e questo era il motivo della copertura, appartenenti a culti diversi. Soltanto gli iniziati che avevano ricevuto una formazione in merito erano davvero in grado di decifrarne i mille risvolti. Di leggerne il messaggio per intero.

Esistono diversi modi di approcciarsi a un prodotto artigianale come un tappeto. Uno di questi è forse quello più semplice e potente, capace cioè di catturare l’attenzione di tutti, anche di quanti non hanno un occhio avvezzo a letture di carattere artistico o antropologico. Questo “modo” è dettato dalla bellezza. E di bellezza ne ho trovata molta passeggiando tra i tappeti del Turkestan esposti in castello e in teatro a Brescia. Un motivo per il quale mi sento riconoscente verso chi si è prodigato nel metterli a disposizione del mio sguardo, così come dello sguardo di tutti i visitatori che, a vario titolo e attratti dal motore della curiosità, ne stanno scoprendo le trame.

Trame che raccontano della vita, sia essa quella ideale-idealizzata dei popoli che li hanno creati, oppure della vita intesa come quotidiano reale dei giorni trascorsi. Di sicuro quella che si legge tra un nodo di seta e l’altro è una narrazione antica, coerente e molto potente. Una narrazione che è bello immaginare prosegua anche al di fuori degli spazi adibiti alle due mostre. Soprattutto quando a pochi passi dall’ingresso di una di esse si erge un meraviglioso albero. Non sarà certo l’Axis mundi – l’Albero della vita – ma è a parimerito carico di fronde, foglie e – meraviglia! – di tanti frutti che si avviano alla maturazione. Sono anch’essi melograni, ancora un po’ acerbi ma eternamente meravigliosi.

I NODI DEI GIARDINI DEL PARADISO

Castello di Brescia

primo aprile – 5 novembre 2023

INTRECCI A TEATRO

Ridotto del Teatro Grande, Brescia

17 luglio – 29 ottobre 2023

Fondazione Tassara

Fondazione Brescia Musei

Fondazione Teatro Grande di Brescia

Napoli, città di magia e metamorfosi

Impariamo troppo presto a giudicare e solo con un certo ritardo scegliamo cosa e come ascoltare. Rientro da un viaggio in un luogo che non conoscevo e sono profondamente grata alle sirene. Creature di mare di cui questa città ancora conserva la voce. Partenope, secondo una delle tante versioni della leggenda, viene portata a riva dai flutti. Il suo corpo privo di vita trova rifugio in un sepolcro. Sono i tempi del mito e già la bellezza intensa di una costa avida di storie si lascia presagire. Napoli, città di magia e metamorfosi, è sul punto di nascere. Una nascita che tanto somiglia ad un superamento della soglia, per un luogo in cui morte e vita sembrano destinate da sempre a condurre insieme la loro fervida danza.

E come ogni cosa di valore che arriva nel mondo e che poi al mondo si plasma, ecco che essa si ricopre delle briciole di un banchetto di cui l’umana gente non è mai sazia: il pregiudizio. Sono stata a Napoli per concedermi una pausa, ma il processo mi ha ricordato di più un rito di passaggio. Non pensavo di covare dentro un desiderio così forte di riprendere a viaggiare, anche solo per pochi giorni e restando in Italia. Non avevo mai visto Napoli e negli anni mi ero fatta una corazza anche di stereotipi negativi che, purtroppo, al Nord abbondano.

Lo ammetto, come molti in questo periodo, anche io sono stata in qualche modo influenzata da Mare Fuori, di cui nelle ultime settimane sono diventata fan. E così fa un po’ strano essere partita proprio da questa serie, che per chi ancora non lo sapesse narra le vicende dei ragazzi rinchiusi all’IPM di Napoli. Fa strano, perché mischiare realtà e finzione può essere un problema quando si vuole cercare di conoscere un posto. E fa ancora più strano quando molte delle persone con cui sono entrata in contatto a Napoli hanno sottolineato quanto poco credito si debba dare a queste narrazioni. Soprattutto, dalle loro parole è emerso anche il fastidio nell’essere perennemente vittime di uno stereotipo. Quello della città camorrista, delinquente e senza via di fuga da una storia già scritta.

Ho riflettuto molto, per quel poco di tempo che avevo a disposizione per il viaggio. E mi sono sempre più accorta di come le storie raccontate da fiction come Mare Fuori (o la stessa Gomorra, che confesso di non avere mai visto), siano pian piano finite con il ricoprire la veste di una delle figure retoriche con cui è più difficile fare i conti: la sineddoche. Quella che al liceo conoscevo come “la parte per il tutto”. Mi sono addentrata fra le viuzze, i Quartieri Spagnoli, il Vomero, Santa Lucia, Chiaia, Posillipo. Conscia del fatto di essere una signora nessuno e dell’avere zero esperienza in materia. Mi sono ritrovata a pensare a come un tipo di narrazione finisca spesso per assumere la funzione del raccontare il tutto per intero. Napoli ha certamente un volto di criminalità organizzata. Ma Napoli non è la criminalità organizzata tout court.

Ovviamente, messa così è una banalità. Nulla si definisce mai in modo univoco e nessun luogo – al pari del genere umano – ha mai un’unica identità che lo connota in modo totalizzante. Eppure, su Napoli le narrazioni di questo genere tendono a moltiplicarsi e a rafforzarsi a vicenda. Ripeto: sono una fan di Mare Fuori. Come direbbe Carmine: “Notizia del giorno” la colpa non sta nella singola serie TV. Se una colpa esiste, di questa versione dei fatti parziale che tende a prendere il sopravvento fino a creare un pregiudizio tale da nascondere il volto autentico delle cose, allora è imputabile a più fattori. Primo fra tutti, forse, la nostra mancanza di curiosità.

La curiosità è un bene prezioso. Va innaffiato, coltivato, curato in maniera costante per fare sì che non si sciupi e che resti sempre verde, in grado di autorigenerarsi. E non c’è niente come l’autenticità per nutrire questo bene. Diventiamo curiosi di qualcosa che ci trasmette il vero. Anche quando si tratta di narrativa – e quindi appunto di fiction, di finzione – se questa ci trasmette l’autentico attraverso il verosimile, sentiamo di avere capito meglio anche solo una piccola parte di qualcosa. E Napoli, fra i suoi mille quartieri, le sue tante realtà e molteplici verità, mi ha restituito l’immagine di un’identità composita, estremamente sfaccettata. Complessa, ma forse proprio per questo anche fortemente autentica.

Sono partita dicevo da una serie che mi ha profondamente incuriosita, dalla fame di vedere una città mai vista prima e ho provato – giurin giurello – anche a guardare la Lonely. Ma non c’è stato verso. Mi serviva un’esperienza diretta, quindi piuttosto di scartabellare i dettagli di ogni monumento, ho preferito impiegare le ore di treno leggendo d’altro. Posto che il mio compagno nel frattempo aveva già ingurgitato le informazioni principali (sant’uomo), io ho semplicemente girovagato. Fino a che non mi sono imbattuta in un’altra guida, trovata anche questa per una strana curiosità che mi ha portata prima ad entrare a Port’Alba tra i librai e poi a ritrovare una libreria di recente riapertura, ancora mezza sommersa dai ponteggi. E qui, mi sono innamorata di una copertina e poi di tutto il pacchetto: Napoli magica, di Vittorio Del Tufo.

Me tapina, non conoscevo la lunga tradizione esoterica di questa città; non conoscevo nemmeno l’autore, che invece tra le altre cose tiene una bellissima rubrica domenicale – L’uovo di Virgilio – sul Mattino di Napoli. La figura in copertina invece, avrei presto imparato ad amarla: si tratta della statua di Antonio Corradini, quella che ritrae la virtù della Pudicizia. L’originale si può ammirare presso la Cappella San Severo, quello scrigno carico di simboli labirintici che tra le altre cose ospita tutta la meraviglia del Cristo Velato.

Insomma, sta di fatto che da quel momento la mia guida della città è divenuta un po’ questa. Una guida che mi ha aiutata – sempre partendo dagli incontri, dal fascino dei luoghi e dai sapori del posto, oltre che dalla voglia di macinare chilometri a piedi – ad entrare meglio in sintonia con questa Napoli, città di magia e metamorfosi. Magia perché essa è sì insita in ogni città, ma soprattutto perché qui davvero è stata, attraverso i millenni, coltivata sotto varie forme. E metamorfosi perché nel corso dei secoli si è saputa evolvere, di dinastia in dinastia, dalle sirene a San Gennaro, da quel mago di Virgilio ai segreti che le sue cave di tufo ancora nascondono alla vista dei più (e che forse sono destinate a nascondere per sempre).

Ed è stato strano e insieme bello passare con le scarpe da ginnastica e la funicolare da un quartiere all’altro, entrando nella progressiva consapevolezza di mondi che si compenetrano, pur mantenendo caratteristiche proprie altamente distintive. “Siete stati al Santuario?”, ci è stato chiesto al Vomero nel tardo pomeriggio, quando con le borse sotto gli occhi di chi è in piedi dalle tre del mattino, ci siamo fermati a rimpinzare lo stomaco e il cuore. “Non ancora, ma abbiamo prenotato la visita al Cristo Velato per domattina.” Non ricordo se la replica è arrivata solo con un sorriso o proprio con una risata. Con Il Santuario, l’interlocutore intendeva tutt’altra cosa e felicemente abbiamo annuito dicendo di avere già visto Maradona ai Quartieri Spagnoli. Del resto, anche quella calcistica è una storia di fede che diventa mito, a cavallo della leggenda.

E il calcio per tutto il finesettimana ce l’avremmo avuto sotto gli occhi, volenti o nolenti. Bene specificare che in chi scrive e in chi l’accompagna, la fede calcistica vera, quella verace che ti morde dentro, non è praticamente mai pervenuta (se non in modo tanto sporadico da farmi pensare di essere troppo influenzabile quando si tratta di squadre per cui fare il tifo). Ma era impossibile non emozionarsi almeno un poco per questa squadra che, almeno fino alla domenica pomeriggio, sembrava destinata a portarsi a casa tutto, persino le scarpette degli avversari.

Noi camminavamo e la città si tingeva degli stessi colori del Brescia e del Monaco, ma con una gioia vistosa di festoni, gagliardetti, cartonati tale da farti sentire la comparsa di un unico lungo fondale. Eppure, non era una messinscena. Era desiderio autentico di vincere, di tornare a primeggiare. Di credere in un sogno che si avvera, sogno che si appoggia sulle memorie del proprio passato. E anche questo credo incarni la forza e il fascino di Napoli, città di magia e metamorfosi.

Da Partenope in poi, Napoli è una città in cui anche le favole danno il nome ai luoghi.”

“napoli magica”, di vittorio del tufo, p13

Camminando tra le vie tramutatesi in un unico stendardo bianco e azzurro, passeggiando tra i presepi di San Gregorio Armeno, fermandosi ad assaporare la pizza ai Tribunali, questa città mi è rimasta un po’ come la donna in copertina al libro. Carica di fascino, di mistero, pronta a svelare le sue bellezze e financo il suo volto soltanto dopo un percorso più o meno profondo tra le sue viscere. Lo confesso: non me la sono sentita di entrare nei meandri delle cavità sotterranee. Ma ho comunque fatto del mio meglio per provare ad entrare in risonanza con questa Napoli, città di magia e di metamorfosi. Ho guardato con occhi nuovi la statua del Nilo, pensando ai culti egizi probabilmente portati qui da un’antica colonia di Alessandrini. Mi sono chiesta che fine potesse aver fatto il famigerato tempio di Iside, al pari del corso del Fiume Sebeto.

E cedendo il passo ai fasti delle sale di Palazzo Reale davanti a Piazza del Plebiscito, inondata dal chiarore quasi palpabile della Galleria Umberto I, ho iniziato forse a intuire quanto difficile sia cogliere il cuore autentico di una città come questa. Perfino quando lo senti battere, non capisci da quale punto preciso del petto questo pulsare indomito si propaghi. Ma di tutte le stravaganti – e a tratti anche un po’ inquietanti – bellezze di questo percorso, una in particolare mi è rimasta impressa. Lo schema della Città ideale, dove la Y di Forcella assume risvolti pitagorici e punta alla perfezione. Un’altra, immensa meraviglia di questa Napoli, città di magia e metamorfosi. Un altro passaggio per il quale vale la pena citare Del Tufo:

Insomma, la struttura urbana di Neapolis […] è la sola a rispondere al modello di Vitruvio. Un’idea di perfezione urbanistica di cui dovremmo essere tutti orgogliosi, che rivive in quelli che ci ostiniamo a definire vicoli e vicarielli e che invece sono una testimonianza incredibile della straordinaria sapienza degli architetti e degli urbanisti del passato.”

napoli magica, vittorio del tufo, p25

Certo, si parla di una pianta molto antica e di cui non sempre oggi s’intuisce il tracciato. Eppure è presente. Forse velata, forse sepolta, ma in qualche modo ancora presente a sé stessa e a chi la vive. Una delle mie speranze nello scrivere è di tenere fede alla promessa fatta a pasticcieri, ristoratori e a tutti gli altri interlocutori di questo viaggio. “Ne parlerete bene di Napoli, quando sarete rientrata a casa? Lo direte che non siamo come nei film?”

Ci sto provando, a mio modo sto provando a raccontarlo. Provo cioè a salutare con affetto fiducioso quel desiderio, autentico e necessario, di voler andare oltre il luogo comune. Oltre la narrazione che, per varie ragioni, ha avuto maggiore fortuna. Contribuire nel grado infinitesimale a fare valere il sacrosanto diritto alla complessità. Nella vita, nei luoghi, nel modo in cui scegliamo d’intenderci e, pertanto, di viverci e raccontarci. Grazie Partenope. Grazie Napoli, città di magia e metamorfosi. Questa per me è stata la tua più grande lezione.

domenica di una copywriter di Brescia che ama scrivere di città

Scrivere di città: Reggio Emilia, vista da fuori

Esiste un vademecum, una guida per copywriter bresciani infreddoliti che desiderano raccontare un altro luogo, scrivere di città? In questo momento esiste solo la pioggerella umida di un’umidissima domenica mattina. E il mio riflesso, perso in un gioco di luci ed ombre, sulla porta d’ingresso del teatro. Dentro, una donna passa e ripassa l’aspirapolvere. Da fuori non capisco bene se sotto ai suoi piedi ci siano ricchi tappeti, o pavimenti in legno calpestati dal tempo. M’immagino le peste di centinaia, migliaia di spettatori. Di quelli che arrivano sempre tardi e si dimenticano di spegnere il telefono. Di quelli che all’ultimo passaggio di aspirapolvere sono già lì, pronti per godersi lo spettacolo. Ma oggi è domenica, è mattina, fa freddo e non si accettano visite. Nessuno di noi ha pensato a prenotare, perché stiamo improvvisando.

scrivere di città, la bellezza di trovarsi riflessi
Scrivere di città è restare incantati di fronte ai riflessi del tempo.

Siamo arrivati a Reggio Emilia ieri, dopo la sveglia in Valle Camonica, prima dell’alba. Gli altri sono ripartiti per arrampicare e io mi sono infilata in hotel. Ho acceso il computer, alzato il riscaldamento della stanza, riordinato la mente e ho dimenticato tutto il resto. Avevo un documento di lavoro da assemblare e mi serviva la giusta concentrazione. Mi sono detta che avrei visto la città il giorno dopo. Così ora è domenica mattina e il vetro specchiato riflette la mia gioia. Si può essere felici anche in una domenica di novembre, davanti ad una porta che non si apre. Del resto, anche stando fuori si può percepire meraviglia.

Raccontare luoghi diversi dal proprio, scrivere di città, credo sia un desiderio antico. Forse al pari di scoprirla la città, quando è ancora insonnolita, infreddolita e rannicchiata sotto le coperte, in attesa della colazione o di un’improvvisa redenzione. Oppure quando è sveglia senza esser vigile, allegra e cordiale, accoccolata su divanetti in pelle e vecchie poltrone. In un bar che si affaccia su una piazza come in estate le case padronali si affacciano sui cortili. Sorseggi un aperitivo sotto a un soffitto affrescato, inciampi con lo sguardo tra gli scaffali della libreria e scivoli leggera lungo il pavimento in cotto.

Ti chiedi, tu che ami scegliere le parole per la scrittura, se esista un modo coerente di dare giustizia al racconto di una città. Non posso dire di avere conosciuto Reggio Emilia. Al massimo, potrò scrivere d’averla passeggiata, immaginata tra le ombre dei viali la sera, incontrata sotto ai portici nel freddo del mattino. Cercata tra i getti d’acqua di una piazza, osservata come un gattino curioso mentre si pulivano le strade e le vecchiette si affrettavano alla messa. Ho sbirciato la luce spiovere dai suoi tetti, il chiarore di candele elettriche accompagnare i tabernacoli, gli eterni piccioni cercare, volando, le ardite meridiane.

Una città italiana, non troppo grande e non troppo piccola, accoccolata nel tepore degli appartamenti, dietro a portoni che restano chiusi. Abbiamo trovato la Storia al Museo del Tricolore. Una chicca, una capriola all’indietro nel tempo, la conferma che i capoluoghi d’Italia hanno il privilegio di riservare sempre qualcosa da fare. Anche se il tempo fuori non consola e la domenica mattina accarezza piano il cuscino. La bandiera d’Italia ha una sala in cui è stata proclamata vessillo di un Paese ancora tutto da inventare.

Sotto il grande lampadario che scende dal soffitto, tra loggiati in legno che rispecchiano la grande tradizione teatrale di questi luoghi, qui si fa ancora Consiglio. È l’edificio comunale, è la Storia che esce dal museo per incontrare il presente. Mazzini, Garibaldi, la Repubblica Cisalpina, la Repubblica Cispadana. E sempre il tricolore che timidamente si affaccia sulla Storia e comincia a sventolare. Si fa simbolo, portatore sano di un sogno, racconto in stoffa palpabile tessuta con le speranze di un popolo.

Come si fa a scrivere di una città, quando la passeggi mentre questa si risveglia? Si rianima, sbadiglia e prende a danzare ad un ritmo che tu, figlia di Alpi e di routine lombarde, proprio non conosci. Ripensi al lambrusco della sera prima e ora vorresti davvero il tuo cartoccio di popcorn. Per accompagnare lo spettacolo più bello, quello che si gioca in esterno: fuori dall’orario di visita e dal trambusto del mondo che gira. Fuori dagli alberghi e dai caselli autostradali. Fuori dalle corse dei treni, dalle taverne che si affollano e dagli scontrini che si battono. Calpestando le stesse strade, le stesse vie e fermandoti di fronte alle stesse facciate che ancora e sempre raccontano e rendono vive le piccole, grandi città italiane.

Raccontare una città: Milano, tra parentesi

Milano da bere, diceva una (bellissima) pubblicità dell’Amaro Ramazzotti: un modo molto ben riuscito di raccontare una città. Forse proprio perché Milano è tante cose che non mi appartengono e che negli anni ho imparato a riconoscere come distanti, tornare in questa città anche solo per un giorno mi è difficile da sintetizzare. 

Milano è di fatto difficile da raccontare. Sfugge ad una definizione un po’ come certe città di Italo Calvino. La osservi, la attraversi, lei a sua volta ti osserva e ti attraversa. Ma chi coglie che cosa? Sabato sono tornata in questo capoluogo delle meraviglie dopo tanto, troppo tempo. Ci sono luoghi che più ci respingono, più dovremmo imparare a percorrere, se non altro per il piacere di metterci allo specchio con il racconto dei nostri contrasti interiori. 

Questa volta, dopo un tragitto in autostrada dai mille lavori in corso e un giornaliero della metro caro al pari di un ingresso a museo, voglio correre il rischio di scriverne, di raccontare una città. Milano forse non è più quella metropoli da bere: a me è sembrata una città tra parentesi. Incastonata, oppure incistata, tra due contrafforti analoghi eppure lontani. 

dalla mostra temporanea sull’arte di Mario Sironi

Ovviamente si tratta di una chiave di lettura, di un finto espediente per provare a tenere un diario delle impressioni d’un pomeriggio. Un esercizio di scrittura, più che di stile, giusto per non annoiare la penna della copywriter che a una certa non vuole scrivere solo di brand e di strategie di comunicazione. Milano per me, e per me soltanto, è stata un percorso tra fermate e una fermata tra scorci d’arte. Sottolineo il “per me soltanto” perché nulla di questa narrazione deve sembrare aspirare al collettivo, o all’assoluto. Si tratta in fondo di un diario sconclusionato, con la certezza di essere una parentesi tra due mondi: quello della settimana lavorativa (la mia) e della routine della città del lavoro (la sua). 

Ho scoperto una nuova Milano salendo le rampe del Museo del Novecento. Ho acquartierato nello zaino portato in grembo la vergogna di non averlo mai visitato prima. Una vergogna giustificata a metà dal “tanto c’è sempre, prima o poi passo e me lo guardo”. Una vergogna che nessuna pandemia può stavolta giustificare. E qui, tra una mostra temporanea sul genio un po’ tormentato di Mario Sironi e le esposizioni permanenti, ho trovato la mia parentesi di respiro. Come un inciso nella frase della frenesia dell’ultimo periodo, del continuo storytelling sui social, del rumore di fondo di un’intera città ammassata dietro alle grandi vetrate spioventi di luce. Milano, racchiusa nel racconto del suo Secolo Breve.

Di quel Novecento fattosi ancora più corto per via di quei segni di punteggiatura: la maiuscola all’inizio del percorso del visitatore, il punto di fine periodo al termine della visita. Un museo ampio quanto le grandi tele che ne definiscono il cominciare e ne racchiudono il termine prima di uscire in Piazza Duomo, illuminati di riflesso dalla magnificenza della Storia. 

l’incontro con il Quarto Stato

Pellizza da Volpedo è un buco nella tela. Sono gli occhi fissi di un uomo che avanza. Uno sguardo eterno a corroborare il movimento di una persona, di una folla resa muta, di una classe che scalpita. All’estremo opposto del percorso, il Quarto Stato si rispecchia in Festa Cinese, di Mario Schifano. Dal 1901 al 1968. Una parentesi di Storia appunto. In mezzo, ci sta il racconto per correnti e per immagini di un’intera città, come di un personaggio mai stanco di cercare un nuovo autore con cui calcare il palcoscenico della vita. Questa Milano mi è piaciuta. Mi ha saputo parlare, con tutta la forza prorompente del Futurismo, le speranze infrante e i sogni spenti di Sironi. 

Per raccontare una città, forse allora davvero la dovremmo attraversare senza fretta. Restando sospesi nelle sue parentesi di racconto. Senza saltare le frasi, lasciandosi travolgere dagli incisi di arte, ricordi e memorie del tempo passato. Del tempo su cui poggiano le fondamenta instabili del Presente, su cui passeggiano i fenicotteri rosa dei giardini privati e in cui aleggia quieto il silenzio di ogni Quadrilatero. 

al Museo del Novecento

Sto mischiando i quartieri, i periodi, gli stili architettonici e le tante faune che ancora li popolano. Eppure una città, se non ha questa varietà infinita da offrire sul piatto del racconto, di cosa sfama i suoi visitatori? Restituire una città non è opera facile e con questa parentesi grassa ma scarnamente raccontata, mi è riuscita forse neanche a metà. Raccontare Milano e riuscire a renderne lo spirito eclettico, mai sazio di cambiamenti e giravolte di Storia, è un’arte che ancora mi sfugge. E che forse è giusto continui a sfuggire, al di là di ogni prigione semantica, di ogni parentesi comunicativa. 

La resina d’agosto

Si dice che la resina sia il balsamo che la pianta si stende sulla ferita. La lascia zampillare, con il suo profumo inebriante, lungo il solco che è stato inferto alla corteccia. Non è una forma di guarigione perfetta, ma ogni volta che un raggio ne colpisce le gocce, se ne coglie una rara forma di bellezza; una meraviglia nata dal dolore e dall’imperfezione che ne è conseguita. È facile trovare questa bellezza nei nostri boschi, basta mettere un piede davanti all’altro in una domenica pomeriggio benedetta dalla luce grigia di fine estate e seguire i profili dei tronchi. Dove questi si fanno meno precisi, ecco che trovano spazio le gocce trasparenti, che delle lacrime hanno il dolce ricordo.

la resina di fine agosto

Fare i turisti a caccia di luoghi lontani, di emozioni da fotografare e di incontri da raccontare è meraviglioso. Spesso però ci dimentichiamo della meraviglia del turismo di prossimità: scegliere una meta che preveda spazio sufficiente per una coperta sull’erba, un libro e mettersi le scarpe giuste ai piedi. Così, le nuvole di fine agosto riempiono il Pian di Gembro di un’atmosfera carica di umidità, felci e specie floreali che tanto ricordano la Scozia. In fondo anche questo è il bello: riuscire a collegare posti lontani con un unico filo rosso, come a segnare le tappe dello stesso viaggio infinito. Lasciare perdurare lo spirito del viaggiatore che è dentro di noi equivale a rendere giustizia a quella parte della nostra anima che richiede meraviglia, stupore, continua scoperta.

sentirsi in Scozia

Per questo, quando passando dal sottobosco di mirtilli e passerelle sul terreno acquitrinoso si arriva prima alle betulle e poi ai larici incanutiti dai licheni, è come attraversare nella distanza di qualche minuto luoghi tra loro lontanissimi. Luoghi che nella nostra mente associamo alle foreste del Colorado, ai picchi liberi delle vallate di altri continenti, o alle distese cangianti della Scandinavia. Tutto, estremamente a portata di mano.

le betulle in Pian di Gembro

Dal Pian di Gembro, prendere per Trivigno e poi per il Mortirolo, rientrando così a Monno, in Valle Camonica. E nel chiudere il giro, capire che si sta davvero compiendo un perimetro di luoghi solo in apparenza distanti: divisi dai confini politici, vicini dalla vegetazione dei versanti e delle tradizioni dei loro popoli. Una chiesetta che si affaccia sulla vallata colpita di sbieco dal sole, i prati d’alpe che scintillano allo spostarsi delle nuvole, le piste da sci ricoperte dal verde tenero della stagione. Attraversare la natura che ci circonda, cercando un punto d’appiglio nelle sue infinite mutazioni per provare a descriverla, è viaggiare. Anche qui, anche a pochi chilometri da casa, anche in una semplice domenica di fine estate. Per deformazione professionale, è ancora meglio accompagnare queste gite fuori porta ad un buon libro, anche se sganciato dal luogo specifico e dal suo contesto.

panorama dalla strada sopra Trivigno

Oggi ho concluso la lettura di “Storia dei Greci”, di Montanelli. Non c’entrava davvero nulla con il posto, ma nella sua bellezza di una prosa semplice, mentre il cielo cambiava più volte opinione sul broncio da mettere, mi offriva uno spaccato d’umanità. Vario, soggetto alle leggi del proprio mutevole tempo, eppure mai sazio di commettere e ricommettere gli stessi errori. Dettati, peraltro, dalle stesse inconfutabili leggi che reggono l’umanità da che mondo è mondo: la sete di potere, l’invidia, la ricerca del piacere.

turista di prossimità in cerca di luce

E in tutto questo, trovare figure che mettevano la ricerca della verità al primo posto… riscoprire Socrate, Platone, Aristotele abbandonati al liceo e poi in qualche corso universitario, è stato come annusare la resina di cui parlavamo sopra. Trovare un balsamo intenso sulle ferite del singolo, o del mondo. La stessa meraviglia gratuita che si prova quando ad ogni tornante della strada si cambia scenario, ma lo stupore resta lo stesso. Quello di chi non si stanca di osservare, o di scrivere, con il cuore del viaggiatore.

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