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Napoli, città di magia e metamorfosi

Impariamo troppo presto a giudicare e solo con un certo ritardo scegliamo cosa e come ascoltare. Rientro da un viaggio in un luogo che non conoscevo e sono profondamente grata alle sirene. Creature di mare di cui questa città ancora conserva la voce. Partenope, secondo una delle tante versioni della leggenda, viene portata a riva dai flutti. Il suo corpo privo di vita trova rifugio in un sepolcro. Sono i tempi del mito e già la bellezza intensa di una costa avida di storie si lascia presagire. Napoli, città di magia e metamorfosi, è sul punto di nascere. Una nascita che tanto somiglia ad un superamento della soglia, per un luogo in cui morte e vita sembrano destinate da sempre a condurre insieme la loro fervida danza.

E come ogni cosa di valore che arriva nel mondo e che poi al mondo si plasma, ecco che essa si ricopre delle briciole di un banchetto di cui l’umana gente non è mai sazia: il pregiudizio. Sono stata a Napoli per concedermi una pausa, ma il processo mi ha ricordato di più un rito di passaggio. Non pensavo di covare dentro un desiderio così forte di riprendere a viaggiare, anche solo per pochi giorni e restando in Italia. Non avevo mai visto Napoli e negli anni mi ero fatta una corazza anche di stereotipi negativi che, purtroppo, al Nord abbondano.

Lo ammetto, come molti in questo periodo, anche io sono stata in qualche modo influenzata da Mare Fuori, di cui nelle ultime settimane sono diventata fan. E così fa un po’ strano essere partita proprio da questa serie, che per chi ancora non lo sapesse narra le vicende dei ragazzi rinchiusi all’IPM di Napoli. Fa strano, perché mischiare realtà e finzione può essere un problema quando si vuole cercare di conoscere un posto. E fa ancora più strano quando molte delle persone con cui sono entrata in contatto a Napoli hanno sottolineato quanto poco credito si debba dare a queste narrazioni. Soprattutto, dalle loro parole è emerso anche il fastidio nell’essere perennemente vittime di uno stereotipo. Quello della città camorrista, delinquente e senza via di fuga da una storia già scritta.

Ho riflettuto molto, per quel poco di tempo che avevo a disposizione per il viaggio. E mi sono sempre più accorta di come le storie raccontate da fiction come Mare Fuori (o la stessa Gomorra, che confesso di non avere mai visto), siano pian piano finite con il ricoprire la veste di una delle figure retoriche con cui è più difficile fare i conti: la sineddoche. Quella che al liceo conoscevo come “la parte per il tutto”. Mi sono addentrata fra le viuzze, i Quartieri Spagnoli, il Vomero, Santa Lucia, Chiaia, Posillipo. Conscia del fatto di essere una signora nessuno e dell’avere zero esperienza in materia. Mi sono ritrovata a pensare a come un tipo di narrazione finisca spesso per assumere la funzione del raccontare il tutto per intero. Napoli ha certamente un volto di criminalità organizzata. Ma Napoli non è la criminalità organizzata tout court.

Ovviamente, messa così è una banalità. Nulla si definisce mai in modo univoco e nessun luogo – al pari del genere umano – ha mai un’unica identità che lo connota in modo totalizzante. Eppure, su Napoli le narrazioni di questo genere tendono a moltiplicarsi e a rafforzarsi a vicenda. Ripeto: sono una fan di Mare Fuori. Come direbbe Carmine: “Notizia del giorno” la colpa non sta nella singola serie TV. Se una colpa esiste, di questa versione dei fatti parziale che tende a prendere il sopravvento fino a creare un pregiudizio tale da nascondere il volto autentico delle cose, allora è imputabile a più fattori. Primo fra tutti, forse, la nostra mancanza di curiosità.

La curiosità è un bene prezioso. Va innaffiato, coltivato, curato in maniera costante per fare sì che non si sciupi e che resti sempre verde, in grado di autorigenerarsi. E non c’è niente come l’autenticità per nutrire questo bene. Diventiamo curiosi di qualcosa che ci trasmette il vero. Anche quando si tratta di narrativa – e quindi appunto di fiction, di finzione – se questa ci trasmette l’autentico attraverso il verosimile, sentiamo di avere capito meglio anche solo una piccola parte di qualcosa. E Napoli, fra i suoi mille quartieri, le sue tante realtà e molteplici verità, mi ha restituito l’immagine di un’identità composita, estremamente sfaccettata. Complessa, ma forse proprio per questo anche fortemente autentica.

Sono partita dicevo da una serie che mi ha profondamente incuriosita, dalla fame di vedere una città mai vista prima e ho provato – giurin giurello – anche a guardare la Lonely. Ma non c’è stato verso. Mi serviva un’esperienza diretta, quindi piuttosto di scartabellare i dettagli di ogni monumento, ho preferito impiegare le ore di treno leggendo d’altro. Posto che il mio compagno nel frattempo aveva già ingurgitato le informazioni principali (sant’uomo), io ho semplicemente girovagato. Fino a che non mi sono imbattuta in un’altra guida, trovata anche questa per una strana curiosità che mi ha portata prima ad entrare a Port’Alba tra i librai e poi a ritrovare una libreria di recente riapertura, ancora mezza sommersa dai ponteggi. E qui, mi sono innamorata di una copertina e poi di tutto il pacchetto: Napoli magica, di Vittorio Del Tufo.

Me tapina, non conoscevo la lunga tradizione esoterica di questa città; non conoscevo nemmeno l’autore, che invece tra le altre cose tiene una bellissima rubrica domenicale – L’uovo di Virgilio – sul Mattino di Napoli. La figura in copertina invece, avrei presto imparato ad amarla: si tratta della statua di Antonio Corradini, quella che ritrae la virtù della Pudicizia. L’originale si può ammirare presso la Cappella San Severo, quello scrigno carico di simboli labirintici che tra le altre cose ospita tutta la meraviglia del Cristo Velato.

Insomma, sta di fatto che da quel momento la mia guida della città è divenuta un po’ questa. Una guida che mi ha aiutata – sempre partendo dagli incontri, dal fascino dei luoghi e dai sapori del posto, oltre che dalla voglia di macinare chilometri a piedi – ad entrare meglio in sintonia con questa Napoli, città di magia e metamorfosi. Magia perché essa è sì insita in ogni città, ma soprattutto perché qui davvero è stata, attraverso i millenni, coltivata sotto varie forme. E metamorfosi perché nel corso dei secoli si è saputa evolvere, di dinastia in dinastia, dalle sirene a San Gennaro, da quel mago di Virgilio ai segreti che le sue cave di tufo ancora nascondono alla vista dei più (e che forse sono destinate a nascondere per sempre).

Ed è stato strano e insieme bello passare con le scarpe da ginnastica e la funicolare da un quartiere all’altro, entrando nella progressiva consapevolezza di mondi che si compenetrano, pur mantenendo caratteristiche proprie altamente distintive. “Siete stati al Santuario?”, ci è stato chiesto al Vomero nel tardo pomeriggio, quando con le borse sotto gli occhi di chi è in piedi dalle tre del mattino, ci siamo fermati a rimpinzare lo stomaco e il cuore. “Non ancora, ma abbiamo prenotato la visita al Cristo Velato per domattina.” Non ricordo se la replica è arrivata solo con un sorriso o proprio con una risata. Con Il Santuario, l’interlocutore intendeva tutt’altra cosa e felicemente abbiamo annuito dicendo di avere già visto Maradona ai Quartieri Spagnoli. Del resto, anche quella calcistica è una storia di fede che diventa mito, a cavallo della leggenda.

E il calcio per tutto il finesettimana ce l’avremmo avuto sotto gli occhi, volenti o nolenti. Bene specificare che in chi scrive e in chi l’accompagna, la fede calcistica vera, quella verace che ti morde dentro, non è praticamente mai pervenuta (se non in modo tanto sporadico da farmi pensare di essere troppo influenzabile quando si tratta di squadre per cui fare il tifo). Ma era impossibile non emozionarsi almeno un poco per questa squadra che, almeno fino alla domenica pomeriggio, sembrava destinata a portarsi a casa tutto, persino le scarpette degli avversari.

Noi camminavamo e la città si tingeva degli stessi colori del Brescia e del Monaco, ma con una gioia vistosa di festoni, gagliardetti, cartonati tale da farti sentire la comparsa di un unico lungo fondale. Eppure, non era una messinscena. Era desiderio autentico di vincere, di tornare a primeggiare. Di credere in un sogno che si avvera, sogno che si appoggia sulle memorie del proprio passato. E anche questo credo incarni la forza e il fascino di Napoli, città di magia e metamorfosi.

Da Partenope in poi, Napoli è una città in cui anche le favole danno il nome ai luoghi.”

“napoli magica”, di vittorio del tufo, p13

Camminando tra le vie tramutatesi in un unico stendardo bianco e azzurro, passeggiando tra i presepi di San Gregorio Armeno, fermandosi ad assaporare la pizza ai Tribunali, questa città mi è rimasta un po’ come la donna in copertina al libro. Carica di fascino, di mistero, pronta a svelare le sue bellezze e financo il suo volto soltanto dopo un percorso più o meno profondo tra le sue viscere. Lo confesso: non me la sono sentita di entrare nei meandri delle cavità sotterranee. Ma ho comunque fatto del mio meglio per provare ad entrare in risonanza con questa Napoli, città di magia e di metamorfosi. Ho guardato con occhi nuovi la statua del Nilo, pensando ai culti egizi probabilmente portati qui da un’antica colonia di Alessandrini. Mi sono chiesta che fine potesse aver fatto il famigerato tempio di Iside, al pari del corso del Fiume Sebeto.

E cedendo il passo ai fasti delle sale di Palazzo Reale davanti a Piazza del Plebiscito, inondata dal chiarore quasi palpabile della Galleria Umberto I, ho iniziato forse a intuire quanto difficile sia cogliere il cuore autentico di una città come questa. Perfino quando lo senti battere, non capisci da quale punto preciso del petto questo pulsare indomito si propaghi. Ma di tutte le stravaganti – e a tratti anche un po’ inquietanti – bellezze di questo percorso, una in particolare mi è rimasta impressa. Lo schema della Città ideale, dove la Y di Forcella assume risvolti pitagorici e punta alla perfezione. Un’altra, immensa meraviglia di questa Napoli, città di magia e metamorfosi. Un altro passaggio per il quale vale la pena citare Del Tufo:

Insomma, la struttura urbana di Neapolis […] è la sola a rispondere al modello di Vitruvio. Un’idea di perfezione urbanistica di cui dovremmo essere tutti orgogliosi, che rivive in quelli che ci ostiniamo a definire vicoli e vicarielli e che invece sono una testimonianza incredibile della straordinaria sapienza degli architetti e degli urbanisti del passato.”

napoli magica, vittorio del tufo, p25

Certo, si parla di una pianta molto antica e di cui non sempre oggi s’intuisce il tracciato. Eppure è presente. Forse velata, forse sepolta, ma in qualche modo ancora presente a sé stessa e a chi la vive. Una delle mie speranze nello scrivere è di tenere fede alla promessa fatta a pasticcieri, ristoratori e a tutti gli altri interlocutori di questo viaggio. “Ne parlerete bene di Napoli, quando sarete rientrata a casa? Lo direte che non siamo come nei film?”

Ci sto provando, a mio modo sto provando a raccontarlo. Provo cioè a salutare con affetto fiducioso quel desiderio, autentico e necessario, di voler andare oltre il luogo comune. Oltre la narrazione che, per varie ragioni, ha avuto maggiore fortuna. Contribuire nel grado infinitesimale a fare valere il sacrosanto diritto alla complessità. Nella vita, nei luoghi, nel modo in cui scegliamo d’intenderci e, pertanto, di viverci e raccontarci. Grazie Partenope. Grazie Napoli, città di magia e metamorfosi. Questa per me è stata la tua più grande lezione.

La resina d’agosto

Si dice che la resina sia il balsamo che la pianta si stende sulla ferita. La lascia zampillare, con il suo profumo inebriante, lungo il solco che è stato inferto alla corteccia. Non è una forma di guarigione perfetta, ma ogni volta che un raggio ne colpisce le gocce, se ne coglie una rara forma di bellezza; una meraviglia nata dal dolore e dall’imperfezione che ne è conseguita. È facile trovare questa bellezza nei nostri boschi, basta mettere un piede davanti all’altro in una domenica pomeriggio benedetta dalla luce grigia di fine estate e seguire i profili dei tronchi. Dove questi si fanno meno precisi, ecco che trovano spazio le gocce trasparenti, che delle lacrime hanno il dolce ricordo.

la resina di fine agosto

Fare i turisti a caccia di luoghi lontani, di emozioni da fotografare e di incontri da raccontare è meraviglioso. Spesso però ci dimentichiamo della meraviglia del turismo di prossimità: scegliere una meta che preveda spazio sufficiente per una coperta sull’erba, un libro e mettersi le scarpe giuste ai piedi. Così, le nuvole di fine agosto riempiono il Pian di Gembro di un’atmosfera carica di umidità, felci e specie floreali che tanto ricordano la Scozia. In fondo anche questo è il bello: riuscire a collegare posti lontani con un unico filo rosso, come a segnare le tappe dello stesso viaggio infinito. Lasciare perdurare lo spirito del viaggiatore che è dentro di noi equivale a rendere giustizia a quella parte della nostra anima che richiede meraviglia, stupore, continua scoperta.

sentirsi in Scozia

Per questo, quando passando dal sottobosco di mirtilli e passerelle sul terreno acquitrinoso si arriva prima alle betulle e poi ai larici incanutiti dai licheni, è come attraversare nella distanza di qualche minuto luoghi tra loro lontanissimi. Luoghi che nella nostra mente associamo alle foreste del Colorado, ai picchi liberi delle vallate di altri continenti, o alle distese cangianti della Scandinavia. Tutto, estremamente a portata di mano.

le betulle in Pian di Gembro

Dal Pian di Gembro, prendere per Trivigno e poi per il Mortirolo, rientrando così a Monno, in Valle Camonica. E nel chiudere il giro, capire che si sta davvero compiendo un perimetro di luoghi solo in apparenza distanti: divisi dai confini politici, vicini dalla vegetazione dei versanti e delle tradizioni dei loro popoli. Una chiesetta che si affaccia sulla vallata colpita di sbieco dal sole, i prati d’alpe che scintillano allo spostarsi delle nuvole, le piste da sci ricoperte dal verde tenero della stagione. Attraversare la natura che ci circonda, cercando un punto d’appiglio nelle sue infinite mutazioni per provare a descriverla, è viaggiare. Anche qui, anche a pochi chilometri da casa, anche in una semplice domenica di fine estate. Per deformazione professionale, è ancora meglio accompagnare queste gite fuori porta ad un buon libro, anche se sganciato dal luogo specifico e dal suo contesto.

panorama dalla strada sopra Trivigno

Oggi ho concluso la lettura di “Storia dei Greci”, di Montanelli. Non c’entrava davvero nulla con il posto, ma nella sua bellezza di una prosa semplice, mentre il cielo cambiava più volte opinione sul broncio da mettere, mi offriva uno spaccato d’umanità. Vario, soggetto alle leggi del proprio mutevole tempo, eppure mai sazio di commettere e ricommettere gli stessi errori. Dettati, peraltro, dalle stesse inconfutabili leggi che reggono l’umanità da che mondo è mondo: la sete di potere, l’invidia, la ricerca del piacere.

turista di prossimità in cerca di luce

E in tutto questo, trovare figure che mettevano la ricerca della verità al primo posto… riscoprire Socrate, Platone, Aristotele abbandonati al liceo e poi in qualche corso universitario, è stato come annusare la resina di cui parlavamo sopra. Trovare un balsamo intenso sulle ferite del singolo, o del mondo. La stessa meraviglia gratuita che si prova quando ad ogni tornante della strada si cambia scenario, ma lo stupore resta lo stesso. Quello di chi non si stanca di osservare, o di scrivere, con il cuore del viaggiatore.

Le storie di Orgosolo

Orgosolo è fatta di case, oppure semplicemente di storie? E quanto si può condensare una storia in un dipinto sul muro, con l’intonaco e a volte anche i nudi mattoni a fare da tela? Sono domande alle quali non ho trovato risposta, quel mezzogiorno d’agosto in Barbagia. So solo che Orgosolo, borgo o paesino a seconda delle preferenze, famoso in tutto il mondo per i suoi murales sgargianti, era tappa obbligata. Impossibile toglierlo dall’itinerario: troppa curiosità, troppa storia, troppa notorietà, troppo tutto. Perfino troppa Barbagia che, se all’inizio ci attirava (colti dalla volontà di cercare di comprendere l’interno), a quel punto era diventata una necessità. Un richiamo forte, forgiato dal termine più bello incontrato in questo viaggio on the road: “barbaricino”.

Orgosolo, Grazia Deledda

Ad Orgosolo sono arrivata praticamente per osmosi, a causa della passione mal celata del mio compagno, da sempre ricettivo alla geografia. Il marketing territoriale, le strategie turistiche, ma soprattutto la capacità di fare rivivere un luogo sono il suo pane. Un pane che a questo punto era diventato anche il mio boccone di viaggio, mangiando dalla stessa ciotola.

un tuffo nella tradizione

Ma sarei ipocrita se dicessi che la tappa di Orgosolo è stata solo un contentino dettato dalla buona pace della coppia e dalla curiosità verso gli arcani del banditismo. Ad Orgosolo ho scattato più foto forse che in qualsiasi altra tappa del viaggio (che cocciutamente mi rifiuto di chiamare “vacanza”). E c’ho lasciato una serie di pensieri, attivatisi dalle micce dei dipinti sui muri, di quello sforzo collettivo di rivalutazione e storytelling, di racconto a metà d’artista e a metà dal basso. Gli stessi pensieri mi hanno seguita fino a casa, altrimenti non mi troverei qui a scriverne ora, di rientro da una conferenza stampa. Forse perché viaggiare è soprattutto questo: conoscersi, interrogare un posto nuovo in cerca di risposte sul proprio; oppure di nuovi interrogativi da declinare nei luoghi che chiamiamo “casa”.

Orgosolo, Faber

Quello su Orgosolo potrebbe tranquillamente essere un post di sole foto, una carrellata infinita di immagini, galleria fatta di colore, linee, ritratti più o meno riusciti. E di fatti questo borgo è una narrazione tutt’altro che lineare, ma immersiva, che rimbalza di angolo in angolo, tra un vicolo e l’altro del centro abitato. Una narrazione in cui le parole sono presenti, ma hanno ragion d’essere solo per contestualizzare o per dare ulteriore voce al contenuto di carattere visuale.

Orgosolo, tra le case

Chi come me lavora nella comunicazione e ama la parte visiva, ma ha una vera strizzata di cuore solo quando il racconto sono i vocaboli scritti a comporlo, si trova spesso nell’eterno conflitto: vale di più il testo, oppure l’immagine? E Orgosolo a modo suo ti mette di fronte a quest’interrogativo anche in maniera abbastanza sfacciata. Sei lì, in quello che sembra già di suo essere il set di un film, nel quasi bel mezzo del meraviglioso nulla, e ti trovi parte di un fotogramma dietro l’altro. Una pellicola infinita di murales, murales e murales. Alcuni infantili, altri ricercati, tutti a loro modo significativi. Persino le immagini di oscenità scarabocchiate per sbeffeggiare l’arte – o forse per prenderla meno sul serio – fanno parte del quadro. Eppure, a gente come me che intende il mondo per parole più che per forme e colore, tutto questo ha bisogno di venire rielaborato, in qualche modo.

Orgosolo, tra le vie

Orgosolo però ha questo grande privilegio: non si spiega. Nel senso che non ne avverte la necessità. Tu cammini per le vie del paese e ti specchi in un Faber con chitarra, in un Terzani con elefante e in ogni povero Cristo dipinto su quei muri per testimoniare il passato. Quante di queste espressioni artistiche sono realmente volute dal popolo? Quanto il popolo ha compreso l’importanza della loro presenza per dare un futuro ad un borgo che altrimenti risulterebbe aspro e forse scialbo?

Orgosolo, progress or process?

Queste però sono le domande sbagliate. Forse l’unica cosa che ci si può chiedere, andando oltre la suggestione profonda che si prova nel camminare con gli occhi fissi ai muri di case abitate e trasformate in un enorme esperimento di storytelling, è sullo spirito. Con lo spirito di un luogo non si scherza. Di posti dalle identità fittizie, perdute, posticce, prese in prestito o semplicemente assenti ne abbiamo fin troppi. Orgosolo ha questo privilegio anche: di essersi rifatto la facciata, senza perdere l’essenza. Lo spirito perdura, traspare e concede di affiggere nuove storie, impregnandone vecchi intonaci, senza snaturarsi. Ci sarà anche la trovata commerciale, attirerà un botto di turisti famelici dello scatto più bello o più instagrammabile. Ma questo non tradisce il luogo, non lo snatura. Anzi, credo che a suo modo arrivi perfino a potenziarlo e che tutto questo colore e racconto visivo, di fatti politici, antiche tradizioni, scrittori e pastori insieme ne faccia davvero parte.

anche questo fa parte del racconto

Ad Orgosolo non ho trovato la pretesa del dare una nuova connotazione forzata ad un luogo. Mi è sembrato invece di sentire la forza chiusa e aspra della Barbagia trovare un modo per esprimere la sua bellezza. Non ho visto l’imposizione calata dall’alto, ma solo l’anima che, tra le giravolte delle viuzze e i click delle macchine fotografiche, si esponeva nuda. Coprendo i muri di nuovi racconti, essa svelava la parte di sé – di noi in quanto esseri umani – più complicata in assoluto da mostrare al prossimo o ai posteri: la tenerezza del racconto singolare, di quello collettivo e di ciò che ne emerge quando i due si fondono. Bellezza appunto, forse decorativa, ma non per questo meno autentica.

Orgosolo, Pintor

Vedrette figlie della provincia

C’è un vecchio sulla cima della montagna. Non gli daremo un nome, né qui, né ora. E non perché non ne abbia uno, o perché sia un parto imprevisto della mia o della vostra fantasia. Non gli daremo un nome – e su questo decidiamo d’essere d’accordo – per due buone ragioni. La prima è che la sua storia potrebbe essere vera ovunque, ora e sempre, in ogni provincia di ogni impero sotto il sole. La seconda è che nella bellezza di quest’incontro, non gliel’abbiamo chiesto. Ci è sembrato bello così: dimenticarcene all’inizio e poi lasciare che nelle nostre orecchie la sua voce assumesse le vibrazioni del “sempre-vero” e dell’eterno, che per definizione non hanno bisogno di un nome proprio.

Anche senza nome, la persona se vogliamo protagonista di quest’episodio di vita è realmente esistita e ci auguriamo teneramente che ancora esista e che persista in questo suo incedere per il mondo, per molti anni a venire. Il luogo è ancora la Sardegna, grande isola di vento, gentilezza e sughero dalla quale non ci siamo davvero mai spostati, procedendo in macchina o in punta di tastiera dal post di ieri a quello di oggi. La Sardegna che ci accoglie qui è nell’interno: non troppo da non riuscire ad intravedere il mare (può succedere anche questo) al suo orizzonte e non troppo poco da poter godere delle sue ricchezze. Siamo, insomma, in montagna. E già per questo ci sentiamo anche un po’ a casa. Durante il viaggio mi sono portata un taccuino, da cui ora mi piace attingere a sprazzi, per non perdere la bellezza di quest’incontro totalmente fortuito e della mia sorpresa nel provarmi poi a descriverlo.

La Sardegna, dall’interno

Nelle guide turistiche, il luogo che avevamo deciso di visitare quel giorno viene descritto come un borgo di montagna, caratterizzato dalla coltivazione delle ciliegie e dalle foreste centenarie attraversate da mufloni e piccoli cervi sardi. Ci sembrava una tappa carina per spezzare il lungo viaggio che dalla costa occidentale ci stava portando a quella orientale. Ma arrivati in paese, come spesso accade in questi casi, non sapevamo bene dove dirigerci e abbiamo fatto l’unica cosa che ci sembrasse sensata: seguire più l’istinto che Google Maps.

Tenendo per il nuraghe segnalato, abbiamo fermato la macchina in un punto che sembrava essere molto panoramico. Lo spiazzo era infatti giusto ai piedi di un’altura e dopo esserci cambiati le scarpe siamo saliti, sotto il sole di mezzogiorno. Sulla cima, svettava una piccola costruzione a forma di capanna, con le pareti di vetro. Attorno alla costruzione si aggiravano alcune persone, ma il nostro sguardo era per lo più avvolto da un manto di boschi e creste, con il blu intenso del mare in lontananza.

Tra gli arbusti riarsi dal sole

Arrivati sul posto, ci siamo resi conto che le persone che vedevamo aggirarsi erano due bambini e un signore che a prima vista ci è sembrato vecchio. La bimba aveva capelli lunghissimi e castani, raccolti in una treccia che le scendeva fin sotto alla vita. Il fratello, di poco più grande ma già con l’atteggiamento un po’ imbronciato dell’adolescenza, portava pantaloni di velluto scuro e aveva in testa un berretto tradizionale. Il signore ci ha invitati ad avvicinarci: ha capito che il panorama ci incuriosiva. Da questo esatto momento in cui il nostro timore di disturbare è stato vinto dalla gentilezza del posto, è nata una pausa lunga un dialogo tra due mondi. L’abbiamo trascorsa all’interno di quella che abbiamo scoperto essere una vedretta del corpo forestale sardo, in compagnia di un caffè della moka servito in bicchierini di plastica e delle nostre prugne acquistate al mini-market.

Con quell’uomo ci siamo scambiati impressioni, visioni, ragionamenti. Agli occhi luccicanti della bimba – che solo in quel momento ha perso la quasi proverbiale timidezza – abbiamo mostrato foto di neve e delle nostre montagne. Abbiamo assaggiato, entrando in punta di piedi e con la paura di rompere un incantesimo di cortesia, l’ospitalità sarda. Quella di cui avevamo giusto letto nel testo della Murgia che ci siamo portati appresso; la stessa di cui avevamo avuto un assaggio con i personaggi incredibili degli alloggi che abbiamo conosciuto strada facendo. Ma un conto è leggerne in un libro sulla Sardegna scritto da un’autrice sarda, o riscontrarla nel modo di fare di uno chef giramondo che ha messo la sua casa in affitto. Un altro, è assaporarne per intero tutta la bellezza abbarbicata su di una vedretta spersa tra i boschi.

Una vedretta sospesa sul mondo

Boschi amati e presidiati con lo sguardo vigile di un padre che ha a cuore la propria terra come si ha a cuore una madre, o un figlio primogenito. Di questo signore – mezzo pastore e mezzo forestale – mi piace pensare come di un essere umano vero, profondo, per nulla scontato. A tutto tondo come solo la realtà sa essere, nel momento esatto in cui inizia a diventare talmente vera da profumare di mitologia. Il fisico segnato dagli anni di pastorizia e dalle lunghe veglie tra un lavoro e l’altro; gli occhi grandi e scuri, come due pozzi di sincerità.

Parlando con lui, ci siamo sentiti tutti fratelli. Noi, figli a nostra volta della provincia e della montagna; di tutti quei luoghi troppo lontani dai centri di ogni potere. Eppure, quanta forza e bellezza in questa periferia dello Stato. In questi posti in cui tutti ci si arrangia, aiutandosi sempre con affetto e con altrettanta diffidenza, ascoltando le storie dei forestieri e paragonandole alla propria, quotidiana esistenza.

Camminando, per arrivare in cima

Nei giorni del nostro viaggio, in cui la Sardegna aveva forse appena smesso di bruciare, appariva ancora più assurdo constatare come la macchina dello Stato abbia ridotto, negli anni, i fondi destinati al presidio del territorio. Di questi avamposti umani affacciati sulla delicata bellezza delle foreste, cosa dovrebbe restare? E poi c’è quella che in molti ritengono sia mancanza di visione, di intraprendenza. Qui il sardo ti guarda mentre racconta delle idee che gli sono venute, titubante nel sentire la sua stessa voce che racconta di quelle bizzarrie. E nel farlo ti scruta, ponendo l’accento sulla poesia di una passeggiata a cavallo e incespicando nella paura, nel timore di mettercisi ad investire sul serio, per ricavarne indotto.

Ti guarda, con quegli occhi immensi, che si sciolgono perfino. E tu non sai davvero, mentre riponi nello zaino la borsina di plastica del mini-market, se augurargli l’intraprendenza sfacciata della costa svenduta. O se sperare che anche l’amico pastore possa restare per sempre sé stesso, eternamente parte di una vedretta affacciata sui monti e immersa nella bellezza pietrosa del nulla.

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