Perché scrivere di sé

Quante buone ragioni esistono per raccontare la propria storia, per scrivere di sé? A volte penso che siano troppe, altre troppo poche. I social in generale, le storie di Instagram, il quarto d’ora di celebrità… Eppure, uscendo per 15 secondi dalla modalità personal branding (che ha un suo fascino, e anche una sua importanza), ci sono ancora delle ottime ragioni per provare a raccontare la propria storia. Durante l’ultima settimana, per fare pausa tra i testi per un sito e un piano editoriale e l’altro, tornavo con la mente a tre prodotti narrativi che mi hanno particolarmente colpita.

Non libri, anche se presto tornerò a scriverne, ma film e serie TV. Uno poi mi chiede quando ho tempo per leggere, andare al cinema, se non sono stanca di stare al computer dopo averci passato una giornata di lavoro. Ehm, sì, la stanchezza fa parte del gioco. La fame di storie, però, spesso è più forte. E poi credo che mi stancherei di più a lavorare in miniera, ma della mia storia magari scrivo un’altra volta. Dicevo: tra un caffè e l’altro spiluccavo articoli e video su YouTube per capire meglio tre prodotti culturali che negli ultimi giorni in particolare hanno catturato la mia attenzione.

MAID, l’acclamata serie TV Netflix, The French Dispatch, ultima fatica di Wes Anderson di cui stanno parlando tutti e Strappare lungo i bordi (sì, anche di Zerocalcare stanno parlando tutti). Mi sarebbe piaciuto capire il come e il perché di ogni singola scena, trama, descrizione di personaggio. Ma le pause caffè non sono infinite e arrivata al sabato pomeriggio, mi si è accesa una specie di lampadina. In fondo, tutti e tre, non mettono in qualche modo al centro la narrazione autobiografica? Non fanno degli sforzi narrativi incredibili per raccontare (anche) la propria storia? Provo a tenere accesa questa lampadina per qualche minuto. Se non avete ancora visto niente di questi tormentoni del momento, chiudete gli occhi (oppure guardate solo le immagini, che da sole fanno poco spoiler). Grazie.

articolo del New Yorker su MAID, serie TV Netflix
Un articolo su Margaret Qualley, attrice protagonista della serie MAID

MAID, raccontare la propria storia, per salvarsi

“MAID”, Netflix: partiamo da qui. Mannaggia a me che ho preso pochi appunti su questa serie TV! Ma come si fa a scrivere e a segnarsi le cose, quando si è così presi da una narrazione? MAID è una storia di violenza domestica, abusi di genere, disturbi bipolari, figure professionali poco retribuite, riscatto sociale. E già così funzionerebbe, di suo. Funziona ancora meglio grazie allo sguardo magnetico della Qualley, che oltre a pulire le case degli altri più o meno devastate dalle rispettive vite, ne appunta i dettagli, ricostruendo le vicende di chi le abita, in modo più o meno simile a come lei sta cercando di ricostruire la propria vita. La protagonista si chiama Alex, e già qui appunto, funziona alla grande. Ciò che rende ancora più speciale questa storia però, è la forza salvifica della scrittura.

Se Alex si salva, è per tante ragioni e anche per tante persone che capiscono il suo talento e i suoi bisogni. E lo fanno proprio grazie al racconto della sua esperienza come domestica e a quel quadernetto scalcagnato su cui lei si esercita, casa dopo casa, passata di Dyson dopo passata di Dyson, a scrivere le storie degli altri. Così facendo, di fatto lei non solo racconta quel frangente (disperato) della propria vita, ma la rimette in ordine. Capisce che vuole imparare a scrivere meglio – perché è portata – e decide di andare al college. Alex è anche e soprattutto una madre, che in quel momento sceglie di riprendere in mano la propria esistenza e quella della figlia di tre anni, basandola su una cosa tanto effimera quanto potente: la parola scritta.

La crescita personale della protagonista, il suo passare attraverso il PTSD da violenza emotiva e l’arrivare finalmente a dargli un nome, sono storie di vita vissuta. La serie Netflix è infatti tratta dal libro della MAID originale. Un best-seller che negli States ha avuto un successo fulminante (pare fosse anche nella Summer reading list di Obama) e che l’ha resa un’autrice affermata. A volte scrivere di sé fa bene e raccontare la propria storia assume un potere catartico. Cosa succede invece quando oltre, a chi siamo, raccontiamo la nostalgia?

qualche appunto e il biglietto del cinema di The French Dispatch
“il languore della nostalgia” suonava troppo bene per non scriverlo

Wes Anderson e la nostalgia della vita

Impossibile guardare un film di Wes Anderson e non dire niente. THE FRENCH DISPATCH sta dividendo il pubblico dei fan di Wes e sta creando due scuole di pensiero nella platea in generale. Anderson ha fatto un film solo per sbattere in faccia a tutti quanto è bravo? Trattasi dell’ennesima collezione di miniature da presepio vivente? E poi questa cosa che ti s’insinua dritta al cuore: “The French Dispatch è una lettera d’amore al giornalismo e ai giornalisti.”

Pare non sia del tutto così. Però sì, di giornalismo – quello bello, long-format, intenso e privo della vergogna di esprimersi liberamente – questo film parla davvero. E lo stesso Wes Anderson ha confessato (ce lo si poteva anche immaginare, vero Wes?!) d’essere un appassionato lettore e collezionista del New Yorker, pubblicazione alla quale l’opera s’ispira. Sì, ma… è un film vero con una storia da raccontare, una trama sua, oppure è semplicemente una carrellata di virtuosismi messi in scena da un egocentrico innamorato dei propri esercizi di stile? E qui il pubblico si divide: i popcorn in una mano, la mannaia nell’altra, perché ormai i dibattiti o si fanno accesi, o di questi tempi sembra di non avere un’opinione.

Forse siamo noi, sempre, il problema, perché le generazioni passano e le reference con il tempo si perdono; oppure perché in questo periodo surreale, ci basta l’assurdità del mondo reale. Però, anche qui, c’è tanto Wes. Come scrive Rolling Stone, c’è il genio (che puoi trovare ovunque, se quello è il tuo modo di guardare il mondo) e c’è il grande interrogativo su cosa sia l’arte e sul ruolo dell’artista. E soprattutto, c’è la speranza che là fuori ci sia ancora un editore – oppure un regista – pronto a dare spazio a chi cerca il bello e la meraviglia. Alle storie e a chi ha l’attitudine a narrarle. Grazie Wes: a tuo modo c’hai raccontato meglio anche un pezzetto di te e della tua nostalgia compulsiva. E di una generazione, quella innamorata del giornalismo lungo, lento, da gustarsi la domenica in panciolle, che sta scomparendo.

Il video di Zerocalcare su Strappare lungo i bordi
Non tutti i freelance vengono inghiottiti dal divano; la maggior parte però, sì.

Zerocalcare, raccontare una generazione

A proposito di generazione, veniamo all’ultimo pezzo forte di questo (mio) pezzo sconclusionato. Cercavo di ragionare sulle diverse modalità e motivazioni legate all’atto del raccontare la propria storia. E là fuori c’è chi è riuscito in un compito molto arduo: attraverso il racconto del sé, dei propri ricordi e dei dettagli intimi e veri, rendere giustizia al racconto di un intero mondo. Quello di chi oggi si colloca tra i 30 e i 40 anni. Di chi si trova ancora a sentirsi stropicciato in ruoli spesso calpestati da gente più giovane, o mai del tutto realizzato. Con STRAPPARE LUNGO I BORDI, l’arte del fumetto di Zerocalcare diventa serie TV Netflix. Breve, ma intensa. Sarebbe da riguardare ogni singola scena, un po’ come ogni singola tavola.

A cominciare dai momenti in cui a entrare in scena è lui: grosso, ingombrante e ovviamente troppo sincero, come solo la coscienza sa essere quando cerchiamo di capire meglio le nostre vite e le scelte che stiamo facendo. Mi riferisco ovviamente all’Armadillo, unico personaggio doppiato da qualcuno che non sia l’autore, nella quasi totalità dei 6 episodi. In questa carrellata di aneddoti, divani che sembrano inghiottire una vita come i draghi sputano fuoco nel trono di Spade, c’è Zerocalcare. Ci sta la sua forza di usare la sua lingua, la sua personalissima realtà. E di raccontarla, disegnata (quindi anche scritta), doppiata e musicata (pezzi meravigliosi) grazie al lavoro di tipo 200 persone.

Raccontare la propria storia qui non è la finzione che, grazie alla forza universalizzante della narrativa come in Wes Anderson, prende il sopravvento. E non è nemmeno l’atto salvifico che permette il riscatto finale, come in MAID e nel suo libro di partenza. Qui c’è un uomo di 37 anni, un artista, che mette in scena la propria visione del mondo di fronte allo sconforto della perdita. Al senso di responsabilità, all’amicizia, ai non-detti, agli anni che passano e a noi che ancora cerchiamo di capire che tratteggio dare alle nostre vite. Una forma, fosse anche quella delle parole, può essere utile.

Come si fa a raccontare la propria storia?

Forse più che chiederci come si fa a raccontare la propria storia, ci dovremmo chiedere perché si può scegliere di mettersi a nudo. Oppure di trasmettere anche solo una piccola narrazione di sé, proiettandola su una pagina, o magari su uno schermo. Confezionandola a parole e immagini e recapitandola all’altro, o agli altri, come gesto terapeutico. Come espressione del mondo che abbiamo dentro. Come mestiere del vivere, che tanta fatica ancora facciamo a comprendere.

Se avessi anche io un Armadillo, al posto della Lince, probabilmente a questo punto mi direbbe che il sabato pomeriggio si fanno le pulizie e che non posso restare attaccata al computer anche oggi, fingendo di scrivere cose interessanti solo per avere un momento l’attenzione dei famigerati 40 lettori. Ma se non siamo qui per creare la nostra personalissima storia, allora cosa ci stiamo a fare? E se per capire lungo quali bordi è bene strappare la carta che ci compone, scrivere di noi ci aiuta… perché non provare?

Ci deve essere una sottile linea rossa che divide l’eserciziodistile-virtuosismo-narcisismo dal piacere (e dal bisogno reale) di raccontare la propria storia. Probabilmente c’è ed è cosa sana renderla visibile, se non agli occhi degli altri, almeno ai nostri. Scrivere, disegnarsi, raccontarsi può fare un gran bene. A volte a noi stessi, e magari un po’ anche agli altri.