content writer a caccia di storie luminose

Tag: Netflix

Netflix, The Umbrella Academy, terza stagione

I poteri di The Umbrella Academy

Articolo in evidenza

Una serie Netflix con dei super poteri

Il titolo può trarre in inganno: qui si tratta di capire quali sono i poteri di “The Umbrella Academy”, non i superpoteri dei suoi singoli personaggi. Sì, perché altrimenti rischieremmo di fare passare anche questo successo Netflix per l’ennesima serie TV. Per non parlare dell’ennesima storia con un gruppo di supereroi che cercano di salvare per l’ennesima volta il mondo. Ops! Spoiler alert: da qui in poi riveleremo parecchi dettagli della saga. Proveremo a scavare sotto la superficie, cercando di capire quali sono i poteri di “The Umbrella Academy”, di cui tra l’altro manca solo una stagione – la quarta – per arrivare alla conclusione.

the umbrella academy family
L’Umbrella Academy al completo. Immagine tratta dalla pagina Facebook “The Umbrella Academy Italia”.

Mi ci sono imbattuta tra i suggerimenti di Netflix, che ormai mi conosce abbastanza bene. Dopo averla vista tutta in lingua originale, ho convinto il mio compagno a fare da cavia riguardandola in italiano. E mi sono chiesta: che cosa funziona davvero in questa serie? Ovviamente non bastano due effetti speciali. Perché una storia faccia davvero presa, deve toccare tutta una serie di corde che ci risuonano dentro nel profondo. Qui proveremo a cercarle, chiamandole archetipi e cercando anche di rispondere a una serie di domande. Premessa importante: questi ragionamenti possono fare bene anche a chi non mastica il linguaggio delle serie TV. Tanto per cominciare infatti, al centro del racconto, si pone monolitico un grande quesito… cos’è il potere?

Il potere e la sua ricerca sono due componenti chiave praticamente di ogni storia che conti. Sia che si tratti di un superpotere da supereroi, sia che abbia a che fare con i poteri intrinseci al genere umano. Ad esempio: l’empatia è un potere? Per quanto mi riguarda sì, non c’è alcun dubbio. Per questa ragione, osservare da vicino una storia che funziona bene, una narrazione compiuta, è utile. Ci aiuta a cogliere cosa rende davvero potenti i suoi personaggi e, di riflesso, che cosa rende potenti noi in quanto esseri umani. Nella serie, il rapporto con il potere viene sviscerato in più modi e a più riprese, accarezzandone le diverse sfaccettature.

Una di queste riguarda il personaggio di Reginald Hargreeves, l’eccentrico vecchietto, tanto geniale quanto ricco, che ha fondato l’Umbrella Academy. Regi ha un rapporto molto particolare con il potere, a cominciare dal modo in cui lo esercita sui suoi 7 figli adottivi. Ragazzini straordinari, tutti nati il primo ottobre 1989 da madri che hanno avuto una gestazione in meno di 24 ore. Reginald li cresce esplorandone i superpoteri con cui sono venuti al mondo. Li porta alla luce, ma al contempo li asserve ad una missione più grande. Li prepara insomma per andare a salvare il mondo. Il rapporto è però estremamente rigido, severo, finalizzato ad allevare dei piccoli mostri dalle immense potenzialità. Uno dei poteri di The Umbrella Academy è probabilmente quello di adottare lenti psicologiche nella stesura di buona parte della trama.

Sir Reginald Hargreeves di certo non fa eccezione, considerando il modo in cui plasma i suoi pargoli sotto il profilo caratteriale, comportandosi da vero padre-padrone. Bellissima la scena in cui parte di quest’approccio viene svelato e cioè quando vediamo per la prima volta Klaus (uno dei 7 figli ormai cresciuti) nell’aldilà, mentre il padre gli fa la barba adottando una postura in tutto e per tutto simile a quella di Freud. Ma non si può parlare di potere senza altri due elementi chiave di ogni storia che si rispetti: consapevolezza e responsabilità. E su questi due temi ci giochiamo tutta la storia dell’Umbrella Academy, con la ricerca disperata di salvare il mondo da una fine certa (responsabilità) e la necessità di guardarsi dentro scavando nel profondo ed affrontando l’abisso delle proprie paure fino ad emergere con un nuovo, inesplorato potere (consapevolezza, di sé ma anche degli altri).

I poteri di The Umbrella Academy

I poteri di The Umbrella Academy stanno negli archetipi. Definire un “archetipo” non è cosa semplice. Nell’ambito della Comunicazione, anche questa parola sta subendo un picco inflazionistico non di poco conto; un po’ come altri termini che abbiamo scoperto essere molto di moda, “storytelling” e “resilienza” per primi. Stando alla definizione della Treccani: “Nel pensiero dello psichiatra e psicologo svizz. C. G. Jung (1875-1961), immagine primordiale contenuta nell’inconscio collettivo, la quale riunisce le esperienze della specie umana e della vita animale che la precedette, costituendo gli elementi simbolici delle favole, delle leggende e dei sogni.” Questa definizione rende bene l’idea di quanto potenti siano gli archetipi. Provando quindi a tracciarne i principali all’interno di questa storia, si rivelano con maggiore chiarezza anche i poteri di “The Umbrella Academy”.

the umbrella academy albero di Natale
Scena tratta dalla seconda stagione. Sempre geniale la presenza dell’ombrello che si palesa all’improvviso. Immagine tratta dalla pagina Facebook “The Umbrella Academy Italia”.

L’apocalisse e il desiderio di evitarla

Eh già, quale sfida maggiore se non quella di salvare il mondo e, con esso, l’umanità intera? L’apocalisse è la cancellazione di ogni cosa, specialmente in chiave di soggetti viventi. La fine senza ritorno, il Giorno del giudizio. Un tema decisamente affascinante anche in ambito letterario – soprattutto per il filone fantascientifico – anche se la sua accezione primaria è fortemente religiosa e, fuor di dubbio, biblica. Nella serie poi non mancano gli scenari del post-apocalisse: cosa c’è in un mondo in cui tutto ha avuto termine? Dal “Vecchio e il bambino” di Guccini all’ecatombe nucleare della serie “One-Hundred”, le storie che fanno parte della nostra percezione del mondo spesso ci parlano della nostra attrazione proprio verso la sua fine ultima.

Qui il personaggio chiave è senz’ombra di dubbio Cinque, che incarna una sorta di Prometeo destinato a pagare il prezzo della conoscenza – una vita di solitudine – per portarne il dono ai mortali. Un dono non subito compreso e che si pone ben presto come il trigger della trama principale di tutta la serie TV, dalla prima alla terza (che sarebbe poi la penultima) stagione. Ragionando sui poteri di The Umbrella Academy è perciò impossibile non prendere in considerazione quanto potente sia il riferimento all’archetipo della distruzione. Tutto cessa di esistere per un errore umano, oppure per una catena di concause, di cui tutti i personaggi principali (a modo loro) dimostrano d’essere degli anelli intercambiabili.

Affrontare il tema della fine di tutto si contrappone e riequilibra con la domanda: cosa posso fare io per salvare il mondo? Dall’alto della terza stagione, un vecchio Cinque lancia il messaggio decisivo: non fare nulla. Non cercare di fermare l’apocalisse. Forse perché alla fine il mondo si salva da solo? Forse perché nel tuo tentativo di fermarla ne sei tu stesso la causa scatenante? O magari perché non ne vale poi tanto la pena? Gli scenari che si aprono sono molteplici, ma il quesito conserva intatto il suo fascino primordiale: se sapessimo che la fine del mondo si avvicina, non faremmo di tutto per porvi rimedio? Una domanda alla quale gli ambientalisti hanno da tempo trovato risposta.

locandina terza stagione The Umbrella Academy, Netflix
Il lancio della terza stagione di The Umbrella Academy, Netflix.

Il viaggio nel tempo e l’immortalità

Nella classifica dei poteri di The Umbrella Academy, un secondo meritatissimo posto va al connubio viaggio nel tempo + immortalità. Di cui la seconda non deve per forza di cose essere il seguito di una ricerca. Anzi: ci sono due personaggi potenzialmente semi immortali nella serie e con buona probabilità nessuno dei due si è cercato un simile fardello da caricarsi sulle spalle. Ma prima di capire che, se il tempo non procede in maniera lineare c’è possibilità di percorrerlo all’infinito, meglio guardare ai salti spazio-temporali di Cinque (da cui tutto, in qualche modo, sembra generarsi).

A 13 anni, il Cinque ragazzino padroneggia già molto bene l’abilità di saltare nello spazio e freme per tentare l’equazione che gli permetterà di fare piroette nel tempo. Reginald, a tavola con i fratelli sgomenti, gli ordina di lasciare perdere, in quanto le conseguenze di un salto temporale rischiano di essere troppo grandi per un piccolo Cinque. Le conseguenze o anche i semplici imprevisti, proprio come il fatto di restare per decenni prigionieri del futuro, arrivando proprio il giorno dopo dell’allora segreta Apolicasse. E infatti Cinque resta bloccato, tornare indietro per quanto ci provi e riprovi è troppo complesso. E a questo punto entra in gioco un altro dei personaggi più affascinanti e meglio riusciti della storia (peraltro assente nella versione originale del fumetto): The Handler.

The Handler rappresenta La Commissione, l’Ente segreto che si è auto-insignito dell’onere e del dovere di mantenere intatta la timeline predefinita. Una timeline secondo la quale l’apocalisse deve avvenire e ogni precedente momento della Storia deve renderla quindi possibile. Per garantire che l’ordine temporale venga rispettato, La Commissione mette in moto dei personaggi che ben poco hanno a che vedere con il tenero Martin di “Ritorno al Futuro”… E così Cinque, invecchiato nel post-apocalisse e dopo una serie di crimini, diventa un sicario e riesce a tornare dalla sua famiglia per avvisarla del pericolo incombente.

Sicari che viaggiano nel tempo, ragazzini impertinenti invecchiati male, goffi tentativi di scompaginare l’ordine cosmico per evitare che il mondo abbia fine… Possiamo davvero parlare di viaggio dell’eroe? Se la trama di “DARK” ci aveva incasinati forte, quella di The Umbrella Academy continua a farlo ma in modo ironico, senza perdere di vista che, ogni volta che cambiamo di ordine a un tassello per modificare l’immagine finale, non abbiamo poi la certezza di quale forma assumano le tessere del domino nel disegno conclusivo. L’archetipo dell’intervenire a tutti i costi ponendo pezze andando indietro negli anni è davvero molto forte. Ma, come tutti i grandi archetipi, qui ha anche l’accortezza di svelarci quanto umani e fallaci noi in fondo siamo.

La famiglia tra i poteri di The Umbrella Academy

In ogni famiglia c’è del potere e ci sono dinamiche diverse a seconda di chi e di come lo si esercita. Tra i poteri di The Umbrella Academy si possono sicuramente citare alcuni personaggi che incarnano degli archetipi molto forti. Ovviamente stravolgendoli. Il primo fra tutti è il già citato Sir Reginald Hargreeves, che impariamo davvero a conoscere solo a partire dalla seconda stagione. Andando indietro nel tempo, si arriva a un Regi del passato, che ha già concentrato buona parte delle sue energie sul potere stesso dell’educazione (in particolar modo sullo sviluppo cognitivo e comportamentale degli scimpanzé, il dolce Pogo ne sarà appunto l’esempio). Il fatto che un uomo talmente ossessionato dal potere e dalle modalità di esercitarlo abbia dedicato tanti sforzi ad esperimenti proprio sull’educazione fa riflettere. Proviamo allora ad unire questo aspetto ad un altro personaggio chiave della serie: Ben.

Ben sembra essere destinato a starsene in sordina durante tutta la storia. E invece il suo ruolo va incontro a un decollo improvviso a partire dalla terza stagione. Ma ovviamente in modo diametralmente opposto a quello del fantasma timido e riservato delle prime due season. Cos’è cambiato? Sicuramente l’educazione, il profondo marchio lasciato dall’upbringing. Un aspetto fondamentale del contesto, che qui prende, per l’appunto, il sopravvento in maniera decisiva. Tanto decisiva da farci pensare che uno dei messaggi in assoluto più forti di tutta la serie, e quindi a questo punto anche uno dei poteri di The Umbrella Academy, sia proprio il ruolo dell’educazione.

Come cresco qualcuno, quel qualcuno è destinato o meno a comprendere con maggiore o minore facilità il suo potenziale e a instradarlo secondo schemi diversi. Non è quindi un caso che la famiglia della prima stagione sia a tutti gli effetti sgangherata e colma di personaggi di fatto in cerca d’autore. Persone il cui unico calore reale è stato somministrato nel corso di tutta l’infanzia da una madre “finta”, nel vero senso della parola. Cioè, robotica.

Il ruolo del padre padrone si contrappone quindi a quello della madre-robot. Grace è stata programmata per reggere in modo letteralmente indistruttibile ai rocamboleschi capricci di Numero Sette (alias Vanya). E così la robot dalle sembianze estremamente docili si trasforma di volta in volta in scrigno d’amore, motivatrice, infermiera, educatrice, rassettatrice dell’enorme residenza Hargreeves e dei malumori di chi la popola. Se il padre è dispotico, la madre robotica (ma paradossalmente più dolce), l’unico ad incarnare a pieno titolo il ruolo di figura “umana” è Pogo. Cioè lo scimpanzé evoluto (e con ogni buona probabilità geneticamente modificato).

Come in ogni buona famiglia con dei super poteri poi, non mancano le dinamiche relazionali al limite dell’incesto. Leila e Luke Skywalker non erano forse fratelli? Luther e Allison lo sono solo per educazione, tema che torna ad essere ancora più centrale. E che non seguiremo di certo in quest’analisi. Decisamente interessante da approfondire sarebbe invece il ruolo del trickster, il personaggio che tiene aperte le porte delle possibilità, l’ambiguo sempre pronto a ribaltare storie, costumi e a volte persino mondi e morali. Cinque? Klaus? The Handler? Il compito è arduo e non me lo assumo.

Sir Reginald Hargreeves
Sir Reginald Hargreeves, padre dell’Umbrella Academy. Immagine tratta dalla pagina Facebook “The Umbrella Academy Italia”.

Il numero 7, le apparenze e il mondo alla rovescia

Il 7 è uno di quei numeri che non hai molta scelta: o lo ami, oppure lo odi. Numero primo dalla forte simbologia in campo esoterico (non sempre compresa, ma spesso corteggiata anche a livello narrativo), 7 è il numero di Vanya, la distruttrice (o l’incompresa). Non solo, ma 7 è anche il numero dei fratelli Hargreeves (sia nella versione Umbrella che in quella Sparrow) e se ad un certo punto Ben ci toglie il numero (rientrando di diritto in tutte e due le famiglie), ecco che nel frattempo il conteggio è già stato prontamente ristabilito da Laila. 7 è anche il numero delle stelle (o sfere) del sigillo all’Oblivion (terza stagione). Di certo, non è stato scelto a caso dagli autori.

E, dato che abbiamo citato l’hotel Obsidiana-Oblivion, vale la pena introdurre un altro dei poteri di The Umbrella Academy: la capacità di percepire una realtà diversa dietro lo strato della materia. O quantomeno d’ipotizzarne una possibile esistenza alternativa. Ciò che siamo e ciò che vorremmo essere. Ciò che siamo davvero e ciò che crediamo di essere. La parentesi dell’hotel astronave dietro il bisonte bianco (scelta anche questa ricca di valenza simbolica) è già di suo una sorta di salto alla “Alice in Wonderland”: in un mondo alla rovescia, che potrebbe essere ma che esiste solo in preparazione di altri mondi.

Un mondo veramente accessibile solo quando cogliamo a fondo il potere più potere di tutti i poteri di The Umbrella Academy: la consapevolezza di sé. Quale potere è infatti più grande del conoscere il proprio potere? Il “conosci te stesso” di socratica memoria ben si addice alla serie. Anche perché, è soltanto conoscendo il proprio potere (anche nel senso di potenziale), che impariamo a utilizzarlo in maniera corretta. Il personaggio di Vanya sembra incarnare quest’aspetto molto più degli altri. Se resta ignara del proprio potere, non cresce come personaggio (né come persona), se ne acquisisce consapevolezza deve poi comunque imparare a gestirlo. Un modo anche per esortarci a prendere coscienza delle nostre zone d’ombra e a capire verso cosa catalizzare davvero le nostre energie nella vita. Anche per non incappare nell’errore di Cinque… senza il quale, ben inteso, l’intera serie non avrebbe senso di esistere!

Volendo chiudere con un pizzico di filosofia, sono tanti i poteri di The Umbrella Academy. Così come i simboli e i messaggi che questa serie Netflix contiene. Una storia quindi che può dare il là a parecchie riflessioni. E che più di ogni altra cosa ci pone di fronte al quesito: so davvero come usare il mio potere? This remains to be seen…

La serie Netflix SQUID GAME ha generato profitto

La comunicazione di SQUID GAME

Come funziona la comunicazione di SQUID GAME? Su cosa si basa il successo della tanto acclamata quanto criticata serie TV Netflix? Negli ultimi giorni non si fa che parlare della trama, dei personaggi, degli incassi di SQUID GAME. Si discute del suo effetto sui bambini, degli atti di bullismo legati ad una “libera interpretazione” del Gioco del Calamaro. Ma cosa comunica davvero questa serie?

Dal punto di vista del marketing, SQUID GAME è arrivata al momento giusto: il carico di violenza e di intrigo presente nella narrazione non fa che renderla il piatto perfetto per il merchandising di Halloween. Quindi sotto questo aspetto, la comunicazione di SQUID GAME ha centrato l’obiettivo. Qui con il termine “comunicazione” mi piacerebbe stropicciare il campo semantico della parola, ampliandone un po’ i confini rispetto all’uso comune. Per un attimo, proviamo ad includerci sia gli aspetti di successo in termini di vendite (possiamo parlare di un funnel di SQUID GAME?!), che i meccanismi narrativi. Più che un’analisi però, o una considerazione di carattere etico, cerchiamo di fare un esperimento.

Togliamo per un momento dal piatto gli elementi della serie TV che finora sembrano avere dominato il dibattito: l’impatto delle scene cruente (specialmente su un pubblico giovane) e l’enormità di quelli che un tempo si sarebbero chiamati “ascolti” (e quindi del valore commerciale della serie). Sul primo punto, ribadisco il concetto già espresso altrove: nella vita, principalmente faccio la copywriter in Valle Camonica. Non la psicologa, non l’educatrice. Come osservatrice di prodotti culturali mi limiterò quindi a dire che una piattaforma a pagamento è libera di adottare i criteri ed i gusti narrativi che preferisce mettere sul mercato.

Squid Game e il gioco delle serie TV
SQUID GAME, chi genera profitto?

Sul secondo punto invece, che la serie risulti essere così vista, non significa che sia altrettanto amata. Potrebbe anche trattarsi dell’ennesimo fuoco di paglia, un innamoramento passeggero da parte di un pubblico annoiato. È anche vero però che ad esultare, forse più che Netflix, dovrebbe essere la Corea del Sud. Negli ultimi giorni sono usciti diversi focus interessanti anche su media di prestigio e dal taglio internazionale, dedicati alla spesa pubblica stanziata negli ultimi anni dalla Corea del Sud in termini di soft power. La cultura fa parte della proiezione dell’influenza di un Paese verso i propri vicini (e anche verso Stati ben più lontani). E l’industria cinematografica rientra a pieno titolo nel grande canestro dei soggetti produttori di cultura. Quindi chapeau a Seul!

Ovviamente, il consiglio dato nel pezzo su STRANGER THINGS vale anche qui: se non avete visto la serie, fermatevi ora. Parlare di comunicazione di SQUID GAME ha senso solo dopo averla osservata, masticata e messa a confronto con alcuni trend. Chi invece episodio dopo episodio, dalla bambola gigante al calamaro disegnato per terra, si è sentito parte della trama, magari vittima più o meno consapevole della propria empatia, è invitato a restare e a dire la propria.

Penso che, in soldoni, SQUID GAME a livello narrativo di originale abbia ben poco. C’è il cameratismo limitato e l’ambiguità dell’antitesi vittima-carnefice della Casa di Carta. Si vede chiaramente la lotta in un’arena artificiale senza esclusione di colpi alla Hunger Games. C’è perfino un tocco di prigionia e mistero nella fortezza sull’isola alla Montecristo. Matrix si insinua piano tra un fotogramma e l’altro, tanto da portare al cambiamento di look del personaggio protagonista dopo la fine del gioco. Per non parlare di logge, maschere e lusso un po’ alla Eyes Wide Shut. Buttandolo sull’estetica poi, la fotografia ha molto del videogame (strano?!), i colori pastello delle scale conducono ad un parco divertimenti di continue porte fasulle e di rampe da illusione ottica. E infatti più che avanzare, i giocatori sprofondano. I giochi dipinti alle pareti prima delle ultime due sfide sono l’ennesimo occhiolino al bene addestrato spettatore.

Come funziona la comunicazione di Squid Game?
Come funziona la comunicazione di SQUID GAME?

Resta una cosa però, nella comunicazione di SQUID GAME. E forse non è tanto questione di denuncia sociale, quanto di attenzione internazionale su di un fenomeno magari poco noto. Il debito dei cittadini sudcoreani. La disperazione, lo sconforto. Quelli sono reali, almeno da quanto emerso nelle ultime settimane complice proprio il successo di questa (fortunata?) serie TV. E se quindi una possibile chiave di lettura stesse qui? Non nella mancata giustizia sociale, quanto nella ludopatia.

Tutti i partecipanti al Gioco del Calamaro sono, di fatto, afflitti da ludopatia. Non riescono a smettere di giocare. Giocano con i soldi, con le proprie vite e con le vite altrui. E quando hanno infine smesso di giocare, possono comunque rimanere avvinghiati ai meccanismi perversi del gioco. Una forma molto sottile di dipendenza li lega alla competizione, probabilmente anche nel tentativo estremo di liberarsi di questa. La comunicazione di SQUID GAME, del suo messaggio e delle vicende dei suoi abbastanza stereotipati personaggi forse andrebbe letta anche così.

Il successo planetario di una serie TV asiatica ha il potere di parlare a tutto il mondo, dicendo: “Il vero problema qui dentro non è solo la violenza, intrinseca anche se spesso invisibile nel nostro sistema. È la dipendenza.” E ognuno, la dipendenza, la coltiva e comunica a modo suo. Come nella maggior parte dei giochi, qui nessuno vince davvero. Ed è questo a fare di SQUID GAME una storia forse non originale, ma interessante.

STRANGER THINGS ci fa sentire a casa

Sarà anche strano, ma STRANGER THINGS ci fa sentire a casa. Guardare questa serie a 33 anni significa ammiccare continuamente alla te bambina, o ai bambini che sono stati i tuoi cugini. Un ammiccare legato all’età e al gioco di specchi adottato dalla comunicazione della serie Netflix. O meglio: di una delle serie TV più amate di sempre. Mi sono chiesta che cosa mi risvegliasse dentro questa storia, con le reference agli anni Ottanta e alla filmografia che ha accompagnato almeno i primi Novanta. Mi sono risposta che trama e personaggi, linguaggio, dialoghi e situazioni della storyline in qualche modo mi fanno sentire a casa. In due modi però contemporanei e tra loro opposti. Mi chiedo se valga lo stesso anche per gli altri spettatori nati prima del crollo del Muro di Berlino.

L’infanzia è un posto bellissimo, un luogo un po’ mitico di cui non possiamo ricordare tutto. Un’età incantata sulla cui pellicola restano impresse soltanto alcune scene. La stessa età benedetta che Undi (la protagonista, se STRANGER THINGS ne ha davvero una) ha per così dire vissuto a metà. Mi sento un po’ ridicola a scriverlo, ma ovviamente, se non avete ancora visto la serie Netflix, fermatevi qui. Spoilers ahead guys!

Da nata alla fine degli anni Ottanta, mi è difficile dire di potermi davvero calare nell’atmosfera dell’ultima Guerra Fredda. Mi mancano molte basi effettive, reali, che per ragioni del tutto anagrafiche non riesco a rievocare. Per me è un po’ come riconoscere di avere delle briciole di Hansel e Gretel da raccogliere, per riportarmi indietro a tanto, tanto tempo fa. A quel Sottosopra confuso e un po’ incenerito al quale appartengono i ricordi monchi, sognati, in parte rimossi o semplicemente cancellati.

STRANGER THINGS è anche un inno all'amicizia
scena iconica e mood di STRANGER THINGS

Guardare una serie TV e cercare di entrare nella sua storia (o nella sua genesi) include anche il livello cosciente. Quello della ricerca logica di un senso compiuto ai mille perché ai quali i ricordi offrono solo suggestioni. Attivare questo livello sui se stessi spettatori, a trent’anni passati, è come riconoscere di avere passato la soglia… il Gate, la Porta per un’altra dimensione. La maturità? La mezza età? Il mezzo del cammin di nostra vita è tempestato dei detriti di chi avremmo potuto essere e non siamo stati. E qui ci sono anche tutte le Undici che in parte sappiamo di essere, con o senza capelli. Per un eccesso di empatia ereditaria, per la ricerca spasmodica di sfidare i limiti del nostro cervello.

Per me STRANGER THINGS è quel fenomeno che entra nel Void, nella dimensione perfetta del trovarsi a metà. In uno spazio buio, un po’ umido e indefinito in cui ci si inoltra solo a piedi nudi. Si calpesta un pavimento oscuro e condiviso non sappiamo con quali altre presenze, talvolta anche con dei mostri. Un posto in cui non distinguiamo più ciò che osserviamo per piacere da ciò che invece studiamo per dovere. Una deformazione professionale che forse mai, da figli più o meno legittimi degli anni Ottanta, ci saremmo sognati di portarci appresso.

Un po’ come la Eleven della serie cammina sospesa in un mondo condiviso di pensieri in cui tutto si mescola, così anche noi, tutti un po’ liberi professionisti manager di noi stessi, camminiamo su assenze di confini. Della vita privata, del lavoro classicamente definito. Dall’altro lato ci sono un poliziotto, uno scienziato, una casalinga, una commessa, un professore delle superiori. Personaggi standard che ci piacciono per la sicurezza che hanno trasmesso ai noi, piccoli dell’epoca dell’incertezza nucleare e delle vecchie certezze su ruoli e mestieri. Ai noi che come Undi si cercano, cercando gli altri nel Vuoto.

STRANGER THINGS ci fa sentire a casa, ma nel Sottosopra
un saluto dall’UpsideDown

La comunicazione su cui STRANGER THINGS si muove è semplice e geniale. Le reference agli oggetti di consumo mediatico dell’epoca. A linguaggi non più in uso e codici comunicativi ormai lontani. La trama c’è e secondo me si sente, ma a tratti vale di più lo storytelling dei ragazzini emarginati perché nerd e secchioni, teneramente geek.

Perché abbiamo bisogno di questa serie TV, anche ora che SQUID GAME reclama attenzione globale (mentre di STRANGER THINGS c’è una ben quarta stagione che hanno appena finito di girare)? Forse perché è scritta bene. Miscela con la stessa accortezza horror e tenerezza. Perché il sorriso di Dustin e il ciuffo finto-ribelle di Steve ci riportano a codici di mode che ci sembrava di conoscere. Perché è il demogorgone che ci portiamo dentro che alla fine non muore mai e resta, aggrappato come le nostre incertezze di generazioni perdute tra mondi, ad una dimensione che non è più la sua. Ci piacciono le storie con i buoni, i cattivi, le zone d’ombra tra colpevolezza ed innocenza, l’ignoto da capire prima ancora che da dominare.

Il continuo strizzare l’occhio dei fratelli Duffer agli Eighties, con i Clash di sottofondo, il consumismo, i limiti dei centri commerciali, la DeLorean che prende il volo… Ci sentiamo a casa, noi figli sperduti di un’epoca mai avveratasi. Ci riconosciamo nelle Converse pasticciate, le biciclette con i campanelli personalizzati, uno skate che spunta all’improvviso e tutti quegli ombretti colorati ad alleggerire le spalline imbottite.

Più guardiamo la serie, meno capiamo se ci riconosciamo maggiormente in quel mondo semplice, dall’acquisto facile e ben definito che stava per mutare grazie alle sue stesse embrionali innovazioni. O se ci ritroviamo di più in quell’esperimento sociale di Undi e del suo capire che di dimensione definita non ce n’è mai soltanto una. E che il mondo all’improvviso si può tramutare in un Sottosopra di cui ancora ci affanniamo a trovare gli strumenti giusti per poterlo comprendere sul serio. Per poterlo navigare, con o senza sangue che gocciola dal naso. Ecco perché STRANGER THINGS ci fa sentire a casa.

Powered by