Le circostanze della nostra vita a volte sono collegate tra loro da un filo rosso. Altre volte, da un cordone. È un rosso cordone simbolico a collegare i tappeti esposti al Castello di Brescia. Appartengono alla collezione Zaleski di Fondazione Tassara e sono gratuitamente accessibili al pubblico in occasione di Brescia e Bergamo Capitali della cultura 2023. Il filo rosso di questa storia passa attraverso il Turkestan. Si srotola accarezzando i confini interni di una regione molto vasta, antica e a lungo oggetto degli intrecci della Via della Seta. Luoghi carichi di vissuto, trama, ordito e lunghissime tradizioni di artigianato locale che si riannodano a correnti religiose e civiltà oramai scomparse.

Il Turkestan culturale in sé è di difficile definizione. Una realtà più storica che geografica, più identitaria che chiaramente tratteggiabile su una mappa. Tant’è che, osservando la cartina e andando a tentoni lungo le rotte carovaniere dell’Asia centrale, tra gli Stati che ora colmano gli spazi di questa grande regione dovremmo riconoscere anche l’Armenia. Quell’Armenia che da terra che lambiva i tre mari si è poi tramutata in millet dell’Impero ottomano, in Repubblica sovietica prima e – ora – in Paese alla ricerca di una propria sicurezza territoriale. Certezze che il ritorno brusco e aggressivo della Geopolitica post 1989 hanno messo duramente in crisi. Ma torniamo ai tappeti e al nostro famoso filo rosso, che sembra intrecciarli tra loro insieme a creazioni tessili di artisti come Alighiero Boetti e Herta Ottolenghi Wedekin, proiezioni multimediali e installazioni di arte contemporanea a cura di LETIA-Letizia Cariello.

Ho visitato l’esposizione in un afoso pomeriggio di agosto. L’intera città sembrava essersi fermata, un po’ per la calura estiva, un po’ per la settimana dell’Assunta. Camminare tra tappeti di lana (ma anche seta, fili d’argento e d’oro) rafforza il senso di mancanza d’aria. Ma la bellezza si sa, ha il potere di rinvigorire anche i sensi più duramente colpiti dal caldo. Ed è in questa bellezza che ho ripensato appunto all’Armenia, la grande assente di questo percorso tra i tappeti turkmeni. Una terra lontana cui mi legano un viaggio molto recente e una serie di letture che ho fatto per colmare le lacune sulla sua storia, la sua cultura. Un’operazione complessa che temo si protrarrà con il tempo, in quanto sto considerando di tornare in Asia centrale. Ma un’operazione al contempo necessaria, che ha portato alla luce della mia ignoranza tutta una serie di informazioni legate proprio ai tappeti.

Quando sono stata a Yerevan, il mese scorso, purtroppo non ho avuto il tempo di ammirare quest’incredibile prodotto dell’artigianato locale. Ho visitato il vernissage, il mercato all’aperto nel cuore della capitale. Ma i tappeti li ho solo adocchiati, distratta com’ero da quella sensazione d’urgenza data dalla foga di cercare dei souvenir quando il tempo scarseggia. In sintesi, i tappeti li ho solo intravisti da lontano, conscia di non potermi soffermare anche su quella meraviglia. Avevo però sentito degli accenni alla maestria di chi li produce e alla bellezza dei loro motivi.

È stato rientrando a casa che ho preso in mano degli articoli di approfondimento. Spulciandoli, è emerso quanto questa tradizione faccia parte del sostrato culturale e storico del popolo armeno. In maniera così profonda che c’è chi osa affermare che l’esportazione dei tappeti locali coincida con il massimo contributo culturale-artistico dato dall’Armenia al mondo. Mi sono tornate in mente altre letture, in cui il tappeto viene visto come elemento di tessitura che connette madre e figlia, o comunque che è di pertinenza prettamente femminile. Secondo alcuni, un retaggio di antiche culture antecedenti le religioni del Libro.

Per chi vive in zone aride, il tappeto è la terra su cui decidi di costruire la tua dimora ogni volta che pianti la tenda. Per altri è il riferimento sacro, il terreno di appartenenza spirituale sul quale prostrarsi per conservare la fede. A tale proposito, c’è chi ipotizza che l’attaccamento dei musulmani all’utilizzo del tappeto sia d’ispirazione armena. Volendo scavare quindi, la tradizione armena dell’intrecciar tappeti pare essere di talmente alto rilievo dall’avere plasmato il senso dei popoli limitrofi riguardo a questa suppellettile. Per questo nella collezione esposta mi aspettavo di trovare almeno un tappeto che provenisse da questa preziosa terra.

Invece no, né in castello né nel ridotto del Teatro Grande di Brescia, dove l’esposizione prosegue in un’altra mostra con i tappeti adibiti alla preghiera. Ma forse, più che leggerla come una mancanza, va vista come una conferma. Ciò che è di fatto assente, immagino sia presente altrove. In quella parte cioè della collezione privata che non è stata esposta. Ma soprattutto, nell’origine silenziosa del processo di tradizione e tessitura che si dispiega sotto gli occhi del visitatore.

In castello si segue un lungo cordone rosso che segna il percorso da seguire. Un’installazione a sua volta artistica che consente di osservare i tappeti da vicino senza essere costretti a passarci sotto. In teatro invece, i tappeti sono appesi alle logge su due livelli, creando giochi simmetrici e d’integrazione-contrasto con il contesto architettonico. Rossi, blu, tinte panna, verdi si alternano seguendo motivi geometrici. Sono raffigurazioni stilizzate, tra le quali non fatichiamo a riconoscere il simbolo solare della svastica, lanterne stilizzate, rose, uccelli, motivi a corna d’ariete, animali fantastici, anfore (simbolo anch’esso femminile), addirittura un paio di splendide farfalle.

Ma soprattutto, in questo gioco di simmetrie schematiche e nodi che azzardano qualche libertà in più c’è il vero protagonista di questa narrazione di lana e seta: il melograno. Una presenza talmente forte da diventare una costante. Il melograno è simbolo dell’Iran, oltre che dell’Armenia. Un elemento identitario così forte per i popoli dell’Asia centrale che non c’è da stupirsi se è presente anche nella cultura cristiana, per non parlare di quella cinese. È il frutto dell’abbondanza, del sacrificio, del martirio, della fertilità che nasce e rinasce dal donarsi in modo completo. Per non parlare di ciò che ha rappresentato per la giovane Persefone e il suo soggiorno nell’Ade. Un simbolo forte e bellissimo la cui carica si sprigiona su più livelli. E la stanza del castello adibita ad ospitare quel ramo della collezione ad un certo punto potrebbe davvero ricordare un giardino, come il titolo stesso dell’esposizione suggerisce.
Un Eden fatto di simboli intrecciati a mano, con pezzi che ripercorrono i secoli e le varie tappe dell’antica Via della Seta. Khotan, Buchara, Samarcanda. Il Belucistan, l’Azerbaijan, il Daghestan, il Kurdistan, lo Xinjiang. Un’area vastissima accomunata – tra le altre cose – da un artigianato capace di smuovere gli animi di mercanti e ricchi acquirenti. I tappeti di queste terre, qualsiasi sia l’uso al quale fossero un tempo adibiti, conservano un intreccio di mondi. Il melograno ne è appunto il protagonista. Ma dubito di avere le competenze necessarie a cogliere tutti i risvolti di questa narrazione di filati.
Se torno con la mente alle letture sull’Armenia, ricordo un passaggio in cui si faceva riferimento al simbolismo presente proprio nei tappeti. Simboli ovviamente stilizzati e tanto bellamente camuffati da riuscire a passare per “innocui” agli occhi di osservatori esterni o, e questo era il motivo della copertura, appartenenti a culti diversi. Soltanto gli iniziati che avevano ricevuto una formazione in merito erano davvero in grado di decifrarne i mille risvolti. Di leggerne il messaggio per intero.
Esistono diversi modi di approcciarsi a un prodotto artigianale come un tappeto. Uno di questi è forse quello più semplice e potente, capace cioè di catturare l’attenzione di tutti, anche di quanti non hanno un occhio avvezzo a letture di carattere artistico o antropologico. Questo “modo” è dettato dalla bellezza. E di bellezza ne ho trovata molta passeggiando tra i tappeti del Turkestan esposti in castello e in teatro a Brescia. Un motivo per il quale mi sento riconoscente verso chi si è prodigato nel metterli a disposizione del mio sguardo, così come dello sguardo di tutti i visitatori che, a vario titolo e attratti dal motore della curiosità, ne stanno scoprendo le trame.
Trame che raccontano della vita, sia essa quella ideale-idealizzata dei popoli che li hanno creati, oppure della vita intesa come quotidiano reale dei giorni trascorsi. Di sicuro quella che si legge tra un nodo di seta e l’altro è una narrazione antica, coerente e molto potente. Una narrazione che è bello immaginare prosegua anche al di fuori degli spazi adibiti alle due mostre. Soprattutto quando a pochi passi dall’ingresso di una di esse si erge un meraviglioso albero. Non sarà certo l’Axis mundi – l’Albero della vita – ma è a parimerito carico di fronde, foglie e – meraviglia! – di tanti frutti che si avviano alla maturazione. Sono anch’essi melograni, ancora un po’ acerbi ma eternamente meravigliosi.
I NODI DEI GIARDINI DEL PARADISO
Castello di Brescia
primo aprile – 5 novembre 2023
Ridotto del Teatro Grande, Brescia
17 luglio – 29 ottobre 2023