Impariamo troppo presto a giudicare e solo con un certo ritardo scegliamo cosa e come ascoltare. Rientro da un viaggio in un luogo che non conoscevo e sono profondamente grata alle sirene. Creature di mare di cui questa città ancora conserva la voce. Partenope, secondo una delle tante versioni della leggenda, viene portata a riva dai flutti. Il suo corpo privo di vita trova rifugio in un sepolcro. Sono i tempi del mito e già la bellezza intensa di una costa avida di storie si lascia presagire. Napoli, città di magia e metamorfosi, è sul punto di nascere. Una nascita che tanto somiglia ad un superamento della soglia, per un luogo in cui morte e vita sembrano destinate da sempre a condurre insieme la loro fervida danza.

E come ogni cosa di valore che arriva nel mondo e che poi al mondo si plasma, ecco che essa si ricopre delle briciole di un banchetto di cui l’umana gente non è mai sazia: il pregiudizio. Sono stata a Napoli per concedermi una pausa, ma il processo mi ha ricordato di più un rito di passaggio. Non pensavo di covare dentro un desiderio così forte di riprendere a viaggiare, anche solo per pochi giorni e restando in Italia. Non avevo mai visto Napoli e negli anni mi ero fatta una corazza anche di stereotipi negativi che, purtroppo, al Nord abbondano.
Lo ammetto, come molti in questo periodo, anche io sono stata in qualche modo influenzata da Mare Fuori, di cui nelle ultime settimane sono diventata fan. E così fa un po’ strano essere partita proprio da questa serie, che per chi ancora non lo sapesse narra le vicende dei ragazzi rinchiusi all’IPM di Napoli. Fa strano, perché mischiare realtà e finzione può essere un problema quando si vuole cercare di conoscere un posto. E fa ancora più strano quando molte delle persone con cui sono entrata in contatto a Napoli hanno sottolineato quanto poco credito si debba dare a queste narrazioni. Soprattutto, dalle loro parole è emerso anche il fastidio nell’essere perennemente vittime di uno stereotipo. Quello della città camorrista, delinquente e senza via di fuga da una storia già scritta.

Ho riflettuto molto, per quel poco di tempo che avevo a disposizione per il viaggio. E mi sono sempre più accorta di come le storie raccontate da fiction come Mare Fuori (o la stessa Gomorra, che confesso di non avere mai visto), siano pian piano finite con il ricoprire la veste di una delle figure retoriche con cui è più difficile fare i conti: la sineddoche. Quella che al liceo conoscevo come “la parte per il tutto”. Mi sono addentrata fra le viuzze, i Quartieri Spagnoli, il Vomero, Santa Lucia, Chiaia, Posillipo. Conscia del fatto di essere una signora nessuno e dell’avere zero esperienza in materia. Mi sono ritrovata a pensare a come un tipo di narrazione finisca spesso per assumere la funzione del raccontare il tutto per intero. Napoli ha certamente un volto di criminalità organizzata. Ma Napoli non è la criminalità organizzata tout court.
Ovviamente, messa così è una banalità. Nulla si definisce mai in modo univoco e nessun luogo – al pari del genere umano – ha mai un’unica identità che lo connota in modo totalizzante. Eppure, su Napoli le narrazioni di questo genere tendono a moltiplicarsi e a rafforzarsi a vicenda. Ripeto: sono una fan di Mare Fuori. Come direbbe Carmine: “Notizia del giorno” la colpa non sta nella singola serie TV. Se una colpa esiste, di questa versione dei fatti parziale che tende a prendere il sopravvento fino a creare un pregiudizio tale da nascondere il volto autentico delle cose, allora è imputabile a più fattori. Primo fra tutti, forse, la nostra mancanza di curiosità.

La curiosità è un bene prezioso. Va innaffiato, coltivato, curato in maniera costante per fare sì che non si sciupi e che resti sempre verde, in grado di autorigenerarsi. E non c’è niente come l’autenticità per nutrire questo bene. Diventiamo curiosi di qualcosa che ci trasmette il vero. Anche quando si tratta di narrativa – e quindi appunto di fiction, di finzione – se questa ci trasmette l’autentico attraverso il verosimile, sentiamo di avere capito meglio anche solo una piccola parte di qualcosa. E Napoli, fra i suoi mille quartieri, le sue tante realtà e molteplici verità, mi ha restituito l’immagine di un’identità composita, estremamente sfaccettata. Complessa, ma forse proprio per questo anche fortemente autentica.

Sono partita dicevo da una serie che mi ha profondamente incuriosita, dalla fame di vedere una città mai vista prima e ho provato – giurin giurello – anche a guardare la Lonely. Ma non c’è stato verso. Mi serviva un’esperienza diretta, quindi piuttosto di scartabellare i dettagli di ogni monumento, ho preferito impiegare le ore di treno leggendo d’altro. Posto che il mio compagno nel frattempo aveva già ingurgitato le informazioni principali (sant’uomo), io ho semplicemente girovagato. Fino a che non mi sono imbattuta in un’altra guida, trovata anche questa per una strana curiosità che mi ha portata prima ad entrare a Port’Alba tra i librai e poi a ritrovare una libreria di recente riapertura, ancora mezza sommersa dai ponteggi. E qui, mi sono innamorata di una copertina e poi di tutto il pacchetto: Napoli magica, di Vittorio Del Tufo.

Me tapina, non conoscevo la lunga tradizione esoterica di questa città; non conoscevo nemmeno l’autore, che invece tra le altre cose tiene una bellissima rubrica domenicale – L’uovo di Virgilio – sul Mattino di Napoli. La figura in copertina invece, avrei presto imparato ad amarla: si tratta della statua di Antonio Corradini, quella che ritrae la virtù della Pudicizia. L’originale si può ammirare presso la Cappella San Severo, quello scrigno carico di simboli labirintici che tra le altre cose ospita tutta la meraviglia del Cristo Velato.
Insomma, sta di fatto che da quel momento la mia guida della città è divenuta un po’ questa. Una guida che mi ha aiutata – sempre partendo dagli incontri, dal fascino dei luoghi e dai sapori del posto, oltre che dalla voglia di macinare chilometri a piedi – ad entrare meglio in sintonia con questa Napoli, città di magia e metamorfosi. Magia perché essa è sì insita in ogni città, ma soprattutto perché qui davvero è stata, attraverso i millenni, coltivata sotto varie forme. E metamorfosi perché nel corso dei secoli si è saputa evolvere, di dinastia in dinastia, dalle sirene a San Gennaro, da quel mago di Virgilio ai segreti che le sue cave di tufo ancora nascondono alla vista dei più (e che forse sono destinate a nascondere per sempre).

Ed è stato strano e insieme bello passare con le scarpe da ginnastica e la funicolare da un quartiere all’altro, entrando nella progressiva consapevolezza di mondi che si compenetrano, pur mantenendo caratteristiche proprie altamente distintive. “Siete stati al Santuario?”, ci è stato chiesto al Vomero nel tardo pomeriggio, quando con le borse sotto gli occhi di chi è in piedi dalle tre del mattino, ci siamo fermati a rimpinzare lo stomaco e il cuore. “Non ancora, ma abbiamo prenotato la visita al Cristo Velato per domattina.” Non ricordo se la replica è arrivata solo con un sorriso o proprio con una risata. Con Il Santuario, l’interlocutore intendeva tutt’altra cosa e felicemente abbiamo annuito dicendo di avere già visto Maradona ai Quartieri Spagnoli. Del resto, anche quella calcistica è una storia di fede che diventa mito, a cavallo della leggenda.

E il calcio per tutto il finesettimana ce l’avremmo avuto sotto gli occhi, volenti o nolenti. Bene specificare che in chi scrive e in chi l’accompagna, la fede calcistica vera, quella verace che ti morde dentro, non è praticamente mai pervenuta (se non in modo tanto sporadico da farmi pensare di essere troppo influenzabile quando si tratta di squadre per cui fare il tifo). Ma era impossibile non emozionarsi almeno un poco per questa squadra che, almeno fino alla domenica pomeriggio, sembrava destinata a portarsi a casa tutto, persino le scarpette degli avversari.
Noi camminavamo e la città si tingeva degli stessi colori del Brescia e del Monaco, ma con una gioia vistosa di festoni, gagliardetti, cartonati tale da farti sentire la comparsa di un unico lungo fondale. Eppure, non era una messinscena. Era desiderio autentico di vincere, di tornare a primeggiare. Di credere in un sogno che si avvera, sogno che si appoggia sulle memorie del proprio passato. E anche questo credo incarni la forza e il fascino di Napoli, città di magia e metamorfosi.
Da Partenope in poi, Napoli è una città in cui anche le favole danno il nome ai luoghi.”
“napoli magica”, di vittorio del tufo, p13
Camminando tra le vie tramutatesi in un unico stendardo bianco e azzurro, passeggiando tra i presepi di San Gregorio Armeno, fermandosi ad assaporare la pizza ai Tribunali, questa città mi è rimasta un po’ come la donna in copertina al libro. Carica di fascino, di mistero, pronta a svelare le sue bellezze e financo il suo volto soltanto dopo un percorso più o meno profondo tra le sue viscere. Lo confesso: non me la sono sentita di entrare nei meandri delle cavità sotterranee. Ma ho comunque fatto del mio meglio per provare ad entrare in risonanza con questa Napoli, città di magia e di metamorfosi. Ho guardato con occhi nuovi la statua del Nilo, pensando ai culti egizi probabilmente portati qui da un’antica colonia di Alessandrini. Mi sono chiesta che fine potesse aver fatto il famigerato tempio di Iside, al pari del corso del Fiume Sebeto.

E cedendo il passo ai fasti delle sale di Palazzo Reale davanti a Piazza del Plebiscito, inondata dal chiarore quasi palpabile della Galleria Umberto I, ho iniziato forse a intuire quanto difficile sia cogliere il cuore autentico di una città come questa. Perfino quando lo senti battere, non capisci da quale punto preciso del petto questo pulsare indomito si propaghi. Ma di tutte le stravaganti – e a tratti anche un po’ inquietanti – bellezze di questo percorso, una in particolare mi è rimasta impressa. Lo schema della Città ideale, dove la Y di Forcella assume risvolti pitagorici e punta alla perfezione. Un’altra, immensa meraviglia di questa Napoli, città di magia e metamorfosi. Un altro passaggio per il quale vale la pena citare Del Tufo:
Insomma, la struttura urbana di Neapolis […] è la sola a rispondere al modello di Vitruvio. Un’idea di perfezione urbanistica di cui dovremmo essere tutti orgogliosi, che rivive in quelli che ci ostiniamo a definire vicoli e vicarielli e che invece sono una testimonianza incredibile della straordinaria sapienza degli architetti e degli urbanisti del passato.”
napoli magica, vittorio del tufo, p25
Certo, si parla di una pianta molto antica e di cui non sempre oggi s’intuisce il tracciato. Eppure è presente. Forse velata, forse sepolta, ma in qualche modo ancora presente a sé stessa e a chi la vive. Una delle mie speranze nello scrivere è di tenere fede alla promessa fatta a pasticcieri, ristoratori e a tutti gli altri interlocutori di questo viaggio. “Ne parlerete bene di Napoli, quando sarete rientrata a casa? Lo direte che non siamo come nei film?”
Ci sto provando, a mio modo sto provando a raccontarlo. Provo cioè a salutare con affetto fiducioso quel desiderio, autentico e necessario, di voler andare oltre il luogo comune. Oltre la narrazione che, per varie ragioni, ha avuto maggiore fortuna. Contribuire nel grado infinitesimale a fare valere il sacrosanto diritto alla complessità. Nella vita, nei luoghi, nel modo in cui scegliamo d’intenderci e, pertanto, di viverci e raccontarci. Grazie Partenope. Grazie Napoli, città di magia e metamorfosi. Questa per me è stata la tua più grande lezione.