Camicia a quadri, capello corto, scarpe comode. Nives Meroi sul palco è una presenza leggera. Nomen omen: le nevi con cui l’hanno battezzata sono una coltre soffice e silenziosa, capace di ottundere ogni tentativo egoico. Un’eccezione nel mondo dell’alpinismo, ambiente spesso ancora definito con termini belligeranti, provenienti da un lessico fortemente maschile e mascolino. La sua leggerezza sa di umiltà, bucato appena fatto, spazzatura portata fuori ogni mercoledì sera. L’atteggiamento semplice e pulito trasmette una vita altrettanto semplice, ordinata e ordinaria. Di primo acchito, forse non lo diresti che questa donna ha scalato tutti i 14 ottomila del pianeta.
L’ultimo, l’Annapurna, è il protagonista del video che commenta lei stessa durante la serata del Sentiero invisibile, il 18 agosto a Ponte di Legno (BS). Legge commenti, speranze e momenti di pura bellezza tratti dal suo stesso libro: “Il volo del corvo timido”. Sembra di sentire una professoressa del liceo. Una di quelle buone, che non darebbero mai una nota per cattiva condotta e che allo stesso tempo richiedono (e spontaneamente ottengono) un atteggiamento di rigore, disciplina.
Forse restiamo stupiti da questo apparente contrasto tra una femminilità semplice e schietta, priva di fronzoli e orpelli, e la extra-ordinarietà delle gesta perché, in fondo, a una figura di questo calibro ancora non siamo abituati. Ci mancano i precedenti, oppure ce li siamo persi per strada. Chi segue un po’ l’alpinismo e le sue vette mediatiche è solito essere a sua volta vittima di un pregiudizio. Quello che tende a dividere il mondo della montagna tra i conquistatori di cime e gli altruisti dell’altitudine. In pratica, tra chi venderebbe anche la madre pur di arrivare in cresta – in quota come in società – e chi si prodiga talmente per il prossimo da risultare in odor di santità. Due estremi opposti della stessa scala di grigi, due modi agli antipodi che adottiamo per definire l’eroe dei nostri tempi.
Insomma, senza volerne fare una lettura femminista, a volte nell’immaginario comune gli alpinisti risultano un po’ come la percezione che si ha delle donne: o prostitute, o suore. Le vie di mezzo spesso non le conosciamo quando si tratta di esprimere un giudizio. La realtà però, è ben diversa. È fatta di grigi, di persone che sfuggono alle categorie. Una realtà che esce dai nostri schemi mentali e che quindi spesso non siamo pronti a raccontare. Eppure, basterebbe osservare con maggior attenzione questa benedetta gradazione per accorgerci dell’esistenza di altri valori cromatici. Questa camicia a quadri sembra esserne la chiara, tangibile prova.

Ha scalato tutti gli ottomila della Terra. Tutti, con il marito (Romano Benet), che a differenza di altre interviste, durante la serata resta in seconda linea. Anzi: in prima fila, da supporto e contraltare silenzioso di fronte alle battute di Nives. Nives, la donna che senza gridare o imporsi se non sulle proprie forze, è diventata un mito. Un esempio di fermezza gentile, di composta caparbietà. La goccia che scava la pietra. La riprova che, quando la passione è autentica, ti può davvero portare in alto, senza bisogno di sgomitare o fare a pugni. Purché ovviamente tu sappia restare fedele a te stessa, coltivando la consapevolezza di chi sei e di cosa desideri. Il resto è allenamento, il resto è storia.
Eppure, in una collana di perle come quella delle tante cime raggiunte, bisogna tener conto anche delle sconfitte. “Cos’è per te il fallimento?”, le chiede Nadia Busato, giornalista e scrittrice. Fallimento non è solo una delle parole attraverso le quali si compie il periplo dell’intervista. Fallimento è il crepaccio che tutti prima o poi siamo chiamati ad affrontare nelle nostre vite. Vite che, come ricorda Nives, sono date dalla somma di tutti i nostri successi, così come di tutti i nostri fallimenti. Nella nostra società fallire sembra una cosa immonda, qualcosa della cui esistenza non ci capacitiamo. Eppure, soltanto fallendo ci scopriamo più umili. E, forse, capiamo davvero le nostre priorità.
Come quella volta in cui, durante l’ascesa, il marito ha un malore. Lei ha le forze, forse una parte la sprona a continuare a salire, a raggiungere il suo traguardo. Ma il buonsenso prevale, inducendola a ridiscendere subito con lui. Una scelta d’amore che si rivela provvidenziale per prendere in tempo la malattia di Romano e iniziare la terapia. Storie di coppia come tante, se non fosse che si sta sospesi in cima al mondo e si è fatta tanta fatica inseguendo un sogno. Bisogna essere capaci di vedere la realtà per quella che è. Di fare silenzio, osservare, comprendere e agire secondo coscienza.

Probabilmente è anche per questo che Nives e Romano sono una coppia tanto affiatata. Battibeccano, certo. Come tutte le coppie. Anche quella volta in cima all’Annapurna, quando ognuno dei due era convinto d’avere individuato il cucuzzolo più alto. “Come sempre, aveva ragione lui.” Ammette lei scrutandolo tra il pubblico. Non sono abbastanza vicina per cogliere lo sguardo, per capire quanto punzecchiarsi ancora implichi questa duratura complicità che da decenni li unisce. Da ragazzi, mentre inaugurano il sodalizio delle rispettive passioni per l’arrampicata. Da fidanzati, quando scelgono di sposarsi per sommare le due settimane di ferie all’anno al congedo per le nozze, riuscendo a guadagnarsi un mese di alpinismo in Sudamerica. E per tutto l’immenso tempo del matrimonio, in cui ogni attimo rubato a famiglia, lavoro, casa, impegni, fare la spesa, pagare le bollette diventa una fuga verso la libertà del prossimo viaggio. Della prossima meta.
La risalita dell’Annapurna, un ottomila a detta sua “basso ma pericoloso, tanto che si tende a lasciarlo per ultimo” risale al 2017. Sono anni in cui la montagna è già stata assalita da quell’alpinismo mordi e fuggi del quale ancora la regione è vittima. Bombole d’ossigeno, portatori sherpa spesso maltrattati, elicotteri che vanno e vengono e trasportano subito in quota chi se lo può permettere. Ma che gusto c’è? La Dea dell’Abbondanza, “colei che dà cibo e nutrimento” come dicono i Nepalesi, lascia che in molti le solletichino i fianchi. È però consapevole di come non tutti siano degni di vivere appieno l’esperienza.
Dalle parole di Nives, sembra che sia la montagna a decidere come e se lasciarti salire. Il resto si consuma nella pazienza dell’attesa di chi sceglie di prendersi il giusto tempo per acclimatarsi. Per liberare la mente dai suoi fantasmi e imparare ad ascoltare i messaggi del proprio corpo. Fare silenzio, contare 30 passi, spegnere la frontale e lasciare che il cono di luce davanti a sé venga inghiottito dal buio. È bene, è sano, è espressione di quella misura del necessario di cui donne come Nives sono divenute portavoce. Solo così si può cominciare ad ammirare qualcosa di nuovo ed eterno. Solo allora, sotto ai propri piedi, prende forma quell’immensa scala di stelle che accende e dissolve la grande notte himalayana.