copywriter a caccia di storie luminose

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Recensioni di saggi e romanzi, brevi analisi di testi, ma soprattutto: consigli di lettura.

CARLOTTA Streghe, fantasmi e luoghi misteriosi in Valle Camonica

Sono emozionata. Sono emozionata perché era da un po’ che non preparavo più la presentazione di un libro. E sono emozionata anche perché il romanzo di Sara Brizzi, CARLOTTA Streghe, fantasmi e luoghi misteriosi in Valle Camonica, mi ha piacevolmente sorpresa. Per questo le ho chiesto se, in vista della presentazione del 5 maggio a Ono San Pietro (vi lascio i dettagli nell’immagine sotto) potessi scriverci sopra due righe. Fa sempre un po’ strano scrivere su qualcosa che è stato scritto da qualcun altro. Sembra di andare nel campo del meta, della “somma di mille riassunti“, per dirla un po’ alla Bersani. Ma questo spazio è stato pensato anche per accogliere le storie luminose di altri. E questo romanzo ha il suo bel raggio luminoso da proiettare sulle storie di tutte noi.

Ho accettato di presentare il libro praticamente a scatola chiusa, mi è bastato il titolo. Da quando mi sono messa sulle tracce del femminino sacro, le storie di stregoneria tornano spesso a farmi visita. E poi la richiesta arrivava da una vecchia conoscenza e il luogo m’intrigava. Con Sara sono finita prima a sentirmi per telefono, poi via mail, infine di persona. Avevo quindi ricevuto indizi a sufficienza per arrivare alla lettura sapendo più o meno che cosa aspettarmi sul piano narrativo. Eppure, verso la fine delle pagine due lacrimucce mi sono scese comunque.

Senza fare troppo spoiler su questo romanzo uscito l’anno scorso, ci sono diversi aspetti della narrazione che mi hanno colpita. Oltre alla caratterizzazione dei personaggi, ecco cos’ha risvegliato il mio interesse: la dimensione magica, quella femminile e l’ambientazione storica. La convinzione che le cose nella vita non arrivino mai a caso mi ha fatto sorridere il cuore prima e durante la lettura. Forse perché sono anche io sulle tracce di alcune mie antenate, mi sono sentita presto coinvolta.

Sara già al telefono aveva messo le mani avanti: “La mia è una storia semplice, volevo che emergesse quella dimensione magica che contraddistingue l’infanzia. In una cornice pulita, legata alla montagna e alle tradizioni di una volta.” Vero. La vicenda narrata potrebbe a un primo sguardo sembrare semplice. Ma più ci s’inoltra nella lettura, meglio si percepisce il lavoro d’intreccio di alberi genealogici a livello matrilineare. Storie di persone che la fantasia della scrittrice ha unito a diverse leggende dell’Altopiano del sole.

Per la maggior parte del romanzo infatti, ci troviamo grosso modo nell’area di Borno, Paline, Prave. Antichi borghi segnati dal passare del tempo e da un sostrato d’aghi di pino, storie tramandate di generazione in generazione e suggestioni popolari. La protagonista è la Carlotta del titolo, che nel corso della narrazione scopre di avere ricevuto delle abilità particolari. Abilità che ha in comune con altre figure femminili del romanzo e che le consentono in qualche modo di squarciare il velo tra il mondo visibile e quello invisibile. Così entrano in gioco presenze del passato, a volte colpevolizzate proprio per abilità simili: in alcuni casi percepite come maledizioni, in altri come veri e propri doni.

Di Carlotta, Simona e delle altre donne del romanzo preferisco che sia direttamente Sara a parlare il 5 maggio. Oppure che il lettore ne scopra le caratteristiche leggendo il libro. Qui m’interessa invece indagare alcuni aspetti non tanto della narrazione, quanto del fascino che questi argomenti ancora suscitano. E penso che questo fattore sia spesso legato ad una questione di luoghi e di vissuti strettamente personali.

Quando qualcosa ci chiama, chiama noi al singolare. Ci chiama perché risuona nel nostro vissuto, nella nostra vocazione, nel nostro modo di essere. Possiamo anche essere curiosi di qualcosa in generale, ma per sentirci davvero legati abbiamo bisogno di calarci nel particolare, nel dove, nel quando e nel come. Sarà che a questa lettura ho intervallato Il codice dell’anima di quel meraviglioso immaginalista di Hillman, ma queste convinzioni mi si sono radicate dentro. Per mostrarsi nella sua potenza, la ghianda della nostra vocazione interiore chiede almeno un mentore e sicuramente molti stimoli in cui permetterci di riconoscere la sua essenza.

Quando era rimasta incinta la prima volta, aveva sperato di partorire un figlio maschio, perché aveva letto che i poteri si trasmettevano di figlia femmina in figlia femmina e aveva desiderato interrompere quella catena, ma non ci era riuscita, perché aveva avuto tre figlie femmine.”

“CARLOTTA. Streghe, fantasmi e luoghi misteriosi in valle camonica”, di sara brizzi, p152-153

CARLOTTA Streghe, fantasmi e luoghi misteriosi in Valle Camonica mi è risuonato dentro perché sono alla ricerca delle mie antenate e della forza intrinseca dei luoghi in cui sono vissute. Una linea sottile che permette di salire di figlia in madre percorrendo a ritroso le proprie radici. Dopotutto, i secoli ci parlano non tanto per date e fatti storici, quanto per i miti e le storie che li hanno contraddistinti. Per le persone con cui sentiamo di avvertire una connessione, scoprendo che il Tempo lineare esiste solo come invenzione del pensiero razionale.

Per questo nel leggere il romanzo, per quanto semplice Sara lo voglia definire, mi sono sentita in qualche modo a casa. Mi sono sentita a casa nel suo cercare di tramandare aneddoti e ricordi, affinché i racconti di famiglia non andassero perduti. Mi sono riconosciuta almeno un poco nel suo desiderio di andare a ritroso, quando non nella realtà dei fatti almeno con la forza dell’immaginazione. E ho amato il suo interessarsi al concetto di “dono“.

Nel libro, il dono è qualcosa che si eredita per via materna e che appartiene quasi esclusivamente alle donne. Qualcosa che rende speciale la persona in quanto le conferisce una caratteristica per lo più assente nel vasto panorama dell’essere umano. Sognare, avvertire presenze, riconoscere un forte legame con la Natura e le sue forze. Questi sono doni, non sono soltanto espedienti narrativi del genere fantasy. Possiamo scegliere di ignorarli, soffocarli, abbandonarli, ma sarà sempre a nostro svantaggio. Possiamo decidere di connotarli in modo negativo, soprattutto quando non ci appartengono… ma sarà fonte di incomprensioni, divisioni, congetture e anche persecuzioni.

Ascoltare e provare a comprendere le leggende è una scelta. Risalire un ipotetico albero genealogico è una scelta. Aggrapparsi a un territorio e alle vicende che ne hanno plasmato l’immagine è un’altra – forte – scelta. Viviamo di scelte, viviamo delle immagini che proiettiamo e in cui scopriamo di sentirci a casa. Ecco perché credo che anche un “semplice” libro che scavalla il fantasy e tocca il cuore “semplice” di un bambino abbia tanto da dire. Soprattutto alle donne, spesso perseguitate nel corso dei secoli. Solo in parte consapevoli del loro immenso potere e di tutto il fascino della loro storia, sia essa collettiva o personale. Ben venga la narrativa allora. Ben vengano le donne che si mettono sulle tracce delle altre donne e di ciò che le rende, semplicemente, “speciali”.

Pagine di pietra in Valle Camonica

Di pagine di pietra in Valle Camonica ce ne sono tante. Pagine scritte, riscritte, modificate nel corso dei secoli e dei millenni. Immense lavagne a cielo aperto solcate dall’erosione di pioggia, vento e ghiaccio. Luoghi su cui l’arte rupestre ha lasciato un segno profondo non solo con figure antropomorfe e rappresentazioni di animali e riti iniziatici. Ma anche con il dono della scrittura, quel solco profondo che ogni, qualvolta viene tracciato, ti porta a chiederti cosa sia Storia e che cosa ci fosse prima. Un solco protagonista del libro PAGINE DI PIETRA, di Alberto Marretta e Serena Solano.

Prima di tutto: non so bene dove suggerirvi di trovare questo libro se lo volete acquistare ora, ma so per certo che presso il sistema bibliotecario che mette in rete la Valle Camonica ne trovate almeno una copia. Altra cosa importante: la data di pubblicazione. Andiamo infatti indietro di quasi 10 anni (era il 2014) e un decennio è davvero un arco temporale tanto breve quanto lungo per smentire oppure confermare delle ipotesi in qualunque campo.

Quello che segue trae semplicemente spunto dal libro. L’articolo che state leggendo va preso per quello che è: il viaggio di curiosità di un’appassionata di miti e scrittura all’interno di un contesto geografico famigliare. Ho qui scelto di riprendere semplicemente alcuni aspetti del testo, accompagnandoli con delle riflessioni. Per amore del fatto che il libro non mi torni a fare la polvere sullo scaffale. Inoltre: mi sono appuntata solo ciò che mi ha colpita, sempre nell’ottica di mettere insieme i tasselli che più mi affascinano. Logico perciò pensare che molte cose interessanti mi siano sfuggite, che altrettante non ne abbia capite e che quanto state leggendo sia il sunto della lettura di una non addetta ai lavori.

Fatte le doverose premesse, confesso di avere deciso di scriverci sopra un pezzo perché avevo degli interrogativi più o meno di partenza. Di alcuni infatti ero già conscia, altri invece sono emersi proprio nel corso della lettura. Si tratta di temi ai quali mi sto scoprendo e riscoprendo legata. Quesiti cui spesso e volentieri non esiste una risposta precisa né, tantomeno, definitiva. Eccone alcuni: qual è la storia dell’antica scrittura della Valle Camonica? Esisteva un femminino sacro espresso, almeno in quest’ambito? Quali luoghi della valle conservano le testimonianze scrittorie più significative? Andiamo quindi al testo e alle informazioni che ho trovato preziose per provare a rispondere.

Il libro è scritto come andava scritto. La sensazione nel leggerlo è perciò quella di entrare tra le pagine di pietra in Valle Camonica insieme al modo di pensare di chi le studia. Un’operazione interessante, non sempre in tutto e per tutto semplice da seguire. C’è però da dire che i contributi dei vari capitoli aiutano a fornire una panoramica d’insieme, spesso anche molto dettagliata. Si tratta quindi di più paper specifici tutti legati principalmente da un luogo (Berzo Demo, dove da poco meno di un anno mi sono trasferita) e da un tema (la scrittura preromana dei nostri antenati camuni). Non restiamo però unicamente nel “trapassato”: verso la fine si trova anche un contributo molto interessante dal taglio più antropologico. Un aspetto che testimonia la necessità di adottare chiavi di lettura multidisciplinari per provare a comprendere un fenomeno tanto complesso quanto affascinante.

pagine di pietra in valle camonica

Fa bene sottolineare quanto l’ampiezza del corpus delle nostre iscrizioni incise sia davvero considerevole. E, di tutte quelle studiate o quantomeno catalogate fino alla pubblicazione di questo libro sulle pagine di pietra in Valle Camonica, sono due i luoghi che spiccano per abbondanza. Si tratta di Berzo Demo (loc. Loa, cui il testo è in buona parte dedicato) e Piancogno (salendo dall’abitato verso l’Annunciata). Al primo dei due luoghi sono legata per amore e scelte di vita, al secondo per discendenza da parte di madre (o meglio: di bisnonna materna). Questi ovviamente sono riferimenti personali che mi hanno fatto da briciole di Pollicino nella lettura. Li colloco nella sfera delle coincidenze con cui la nostra vita è intessuta.

Berzo Demo e Piancogno. Loa e l’Annunciata quindi. Due affacci sul fondovalle, due luoghi sotto diversi aspetti simili che, da quanto si evince, conservano stratificazioni di culto lunghe millenni. E, a proposito di culti, viene da sottolineare due questioni fondamentali: la difficoltà d’identificarli in modo univoco, per via della progressiva stratificazione. E la presenza per un periodo di tempo lunghissimo di più forme di culto praticate in contemporanea (alla faccia della linearità del tempo). Culti in cui l’antenato e il dio non erano poi forse troppo distanti l’uno dall’altro.

E qui entriamo in un tema tanto delicato quanto affascinante. Quello del ruolo dell’immaginario collettivo, della capacità di ritrarre un mondo ideale, forse più che reale. Un altro degli aspetti legati alle incisioni rupestri (in generale, non per forza solo alle iscrizioni in alfabeto) che mi hanno profondamente colpita. La reiterazione del cervo, la rievocazione forse anche dei propri miti fondativi. E la rosa camuna, probabile associazione al Sole e al contesto dell’iniziazione femminile. Questione che si fa ancora più interessante quando alcune raffigurazioni vengono coperte, anche solo parzialmente, da altre. Damnatio memoriae? E se sì, per quale ragione?

“L’arte rupestre non sarebbe la semplice raffigurazione di momenti del quotidiano ma piuttosto la continua rinascita di un mondo ideale, all’interno del quale sussisterebbero poteri e mezzi sovrannaturali in grado di investire sia l’essere umano che la sfera animale.”

pagina 55

A proposito di simboli… Incisioni di scrittura e incisioni di coltelli si scoprono essere spesso in relazione le une con le altre. Forse un’indicazione di status sociale, probabilmente un chiaro riferimento ad un mondo fortemente al maschile. Del resto, la scrittura era altrettanto probabilmente ad appannaggio di caste elevate. Elemento di prestigio che rientrava nella (o dava accesso alla?) sfera del sacro. Un sacro che, prima dell’arrivo dell’alfabeto latino e spesso anche in modo coevo, si basa su lettere vicine al nord-etrusco. Lettere che era necessario imparare a scrivere, a maneggiare con destrezza. E, alcune rocce in particolare, si prestavano particolarmente bene per esercitarsi in quelli che ora ricordano dei grandi quaderni a righe.

Scrivere, scrivere e ancora scrivere. Probabilmente con un’intensità maggiore rispetto a quanto avveniva nelle vallate limitrofe. Almeno, così lascia supporre la relativa abbondanza di materiale ritrovato in Valle Camonica. All’epoca della pubblicazione del testo (anno 2014), si era arrivati a contare circa 300 attestazioni di iscrizioni preromane in zona. La stragrande maggioranza su roccia. Da qui allo stabilire con certezza quando si sia iniziato a scrivere, è tutto un altro paio di maniche. In generale però, pare ci sia stata una maggiore diffusione delle iscrizioni nella tarda Età del Ferro. Un fenomeno che è andato accentuandosi in parallelo alla Romanizzazione del territorio, sancita in modo per così dire “definito” nel 16 avanti Cristo.

pagine di pietra in valle camonica

E qui chiudo queste pagine di pietra in Valle Camonica. Lo faccio per provare ad interrogarmi di nuovo sul punto di partenza, sui quesiti che ho trovato disseminati lungo il percorso. Di questo femminino sacro, almeno nella nostra antica scrittura, non mi pare di avere scorto traccia. Mi sembra invece evidente come le tradizioni (del folklore locale e della religiosità dei luoghi) abbiano in qualche modo conservato la presenza del principio femminile. L’Annunciata è del, resto, legata al culto della Vergine. Vergine profondamente onorata anche nelle feste di Berzo Demo. Se poi prendo spunto da uno degli ultimi capitoli, quello dal piglio antropologico, mi viene da soffermarmi sui racconti in cui le streghe non sempre e non per forza vengono dipinte come entità assolutamente malvagie. Al contrario, talvolta nelle leggende locali venivano in aiuto delle famiglie bisognose.

Confesso che da un lato mi spiace – per non dire che “mi scoccia” proprio – individuare ancora una volta la scrittura come sì un atto sacro, ma ad appannaggio della classe maschile. Chissà, forse al momento del suo arrivo in zona, la valenza profonda del matriarcale e dell’equilibrio tra i due principi si era già perduta. Forse invece non c’era mai davvero stata. Oppure forse, chissà… magari sono valori che ritroveremo soltanto scavando più a fondo. Tra le nostre rocce, e soprattutto, in ciò che resta della nostra memoria collettiva.

LUX AB ORIENTE, fabula fantastica septima di Innocenzo Bona

LUX AB ORIENTE, la settima fabula di Enzo Bona

Perché “LUX AB ORIENTE”? Perché la fabula fantastica septima del Magister Innocenzo Bona è un inno alla conoscenza. Un libricino che si legge in poco tempo e che silenziosamente esorta alla comprensione: degli altri, dei tempi lontani e dell’oggetto più difficile di ogni ricerca. La propria, intima realtà.

Lettura in Valle Camonica, di romanzo storico su Valle Camonica

Enzo Bona – botanico, camuno di nascita e uomo di grande curiosità culturale – ci ha regalato un’altra fabula. Un breve romanzo storico il cui protagonista è un se stesso di qualche secolo fa. Prima di parlare della vicenda narrata e del perché valga la pena leggerla, ci tengo a sottolineare il verbo “regalato”. Sì, perché questi testi di narrativa storica, il Magister Enzo Bona non li scrive per il mercato, ma per gli amici. E, probabilmente, anche per dare uno sfogo salutare alle sue peregrinazioni botaniche, storiche e letterarie.

I libri hanno questo meraviglioso potere. Trovano sempre il modo di arrivare al lettore, anche percorrendo le vie più impensate. Un po’ come il protagonista della serie che quest’autore della Valle Camonica ha saputo creare. Anno dopo anno, il Magister, con la sua passione per la ricerca della verità, grazie all’aiuto delle specie botaniche di mezza Europa, risolve intrighi e misteri. In quest’episodio, Innocenzo parte per un lungo viaggio a più tappe, ognuna dettata da uno scopo. A cominciare dall’epidemia di colera cui gli è chiesto, grazie alle sue competenze mediche e scientifiche, di porre rimedio. È il 1538 e siamo a Buda, durante una pausa del conflitto con Pest. A fronteggiarsi, non sono solo le due rive del Danubio, ma due civiltà separate.

LUX AB ORIENTE, la settima fabula di Enzo Bona

Lo scontro tra gli uomini è, momentaneamente, sospeso. Urge prima trovare rimedio al misterioso insinuarsi della malattia, che miete vittime senza distinzione di credo religioso. Da dove arriverà la salvezza? LUX AB ORIENTE, la soluzione sta tutta qui. La luce della conoscenza arriverà da chi saprà guardare oltre le divisioni, gettando lo sguardo là dove sorge il sole del sapere.

Il racconto – non riesco a decidermi se è più un racconto lungo o un romanzo breve – procede attraverso lo spazio. Le strade infangate del tardo autunno ci portano verso altre città e nuovi enigmi da risolvere. Il Magister dovrà far fronte ai capricci degli uomini, ma anche al loro tentativo di mettere in salvo una cultura condivisa, in grado di travalicare Alpi, fiumi, eserciti. Il compito più feroce e complesso si svolgerà però nella terra natìa, quando al ritorno da ogni viaggio si compirà il mistero più grande. Quello dell’introspezione profonda, del cercare la luce tra i meandri della propria coscienza. E qui è il sottotitolo a venirci incontro: quel “Nel silenzio rifletto”, che offre molto più di una sola chiave di lettura.

Leggere al Lago Moro

LUX AB ORIENTE è un libro breve, scritto da un autore camuno, forse anche per presentare la Valle Camonica di secoli fa. Le sue ricchezze in termini di scuole e studi. Qualcosa che ora, da non addetti ai lavori, non saremmo in grado di sospettare. Qualcosa che vale la pena lasciare investigare oltre al lettore fortunato, al quale Enzo Bona vorrà far dono di una copia del libro. Nel caso, perché essergliene grati? Perché chi scrive una storia destinata agli amici, indirizza una lettera a cuore aperto anche a se stesso e alla propria terra. E perché la conoscenza è, da sempre, lo strumento attraverso il quale sconfiggere malattie, gettare ponti oltre le avverse correnti ed aprire lo scrigno che ospita i nostri pensieri più reconditi. LUX AB ORIENTE: grazie Enzo Bona, è nel silenzio della lettura che trova casa la riflessione più feconda.

La settima fabula fantastica di Enzo Bona
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Scrivere di cavalli: il romanzo di McCarthy

Un romanzo per descrivere la ricerca di libertà

Aspro è il deserto, aspra la polvere che si solleva ad ogni passaggio di zoccoli lanciati al galoppo. Aspra è la prosa scelta da Cormac McCarthy per descrivere la ricerca di libertà e scrivere di cavalli. Ecco un romanzo che non si limita a raccontare la fuga in sella verso nuovi orizzonti, ma parla di Messico, onore, gioventù e libertà. Ecco “Cavalli selvaggi”.


Il tempo di questo romanzo alza il sipario nel 1949 e non siamo ancora in Messico, ma in Texas. Per varcare la frontiera verso il Sud dobbiamo lasciare scalpitare il cavallo ancora per qualche pagina. Quel che basta all’autore per raccontare l’inizio della storia di John Grady Cole, protagonista cresciuto su di una sella e in cerca della sua strada.


John Grady è giovane, un ragazzo non ancora maggiorenne, ma quando entra in scena siamo portati a pensare che sia più grande. Forse perché ha assorbito la storia della sua cittadina e prima ancora quella della sua famiglia. E da queste due non c’è scampo, se non quello di sellare il cavallo e di cercare fortuna altrove. Come un tempo facevano i cercatori d’oro, o i veri cowboy, ma nel secondo Dopoguerra a stelle e strisce.

“Guardava il panorama con occhi socchiusi come se il mondo esterno fosse alterato o sospetto a causa di ciò che aveva visto altrove. Come se non potesse mai più vederlo come prima. O peggio, come se lo vedesse finalmente nel modo giusto. Com’era sempre stato e sempre sarebbe stato.”

Il romanzo di Cormac McCarthy va oltre lo scrivere di cavalli.

Scrivere di cavalli

Per scrivere di libertà senza risultare banali ci vogliono due elementi chiave: il talento e il coraggio. Il primo e il secondo non sono per forza di cose legati in uno scrittore ed è anche vero che l’approccio alla scrittura e la visione della libertà sono soggetti alle giravolte del tempo. A fare da collante fra questi due preziosi elementi narrativi si collocano i cavalli, indomiti compagni d’avventura.


Ci sono infatti alcuni elementi, forse chiamarli archetipi in questo caso è troppo, del nostro vissuto che riescono a comunicare bene a tutti le stesse cose. Lanciare un cavallo al galoppo, accamparsi sotto le stelle, sfidare le leggi non scritte di una casa padronale, tentare fortuna altrove, varcare un confine. L’elenco potrebbe andare avanti ancora a lungo, ma il concetto emerge chiaro fin da subito: scrivere di libertà ha una sua lingua.


Il deserto del Texas è diverso da quello del Messico. Lo si avverte nelle descrizioni, nel gioco di presenza/assenza di avamposti umani. Cambia la sabbia, forse cambiano anche le impronte lasciate dagli zoccoli; cambiano gli scenari, come quinte di un sipario che ad ogni scena si alza su nuovi mondi di storie. A cambiare è anche il nostro John Grady, che nel suo viaggio dell’eroe in chiave di romanzo di formazione, segue la rotta a briglia sciolta e pagando i conti di persona.

“Il ragazzo, che cavalcava poco più avanti, stava in sella come ci fosse nato, e infatti era così, ma dava l’impressione che, se fosse nato in uno strano paese privo di cavalli, avrebbe saputo scovarli ugualmente. Perché il mondo fosse a posto o perché lui fosse a posto nel mondo, si sarebbe accorto che mancava qualcosa e sarebbe andato in giro continuamente e dovunque finché non si fosse imbattuto in un cavallo, e allora avrebbe capito subito che il cavallo era e sarebbe sempre stato quel che cercava.”

"Cavalli selvaggi", il romanzo di Cormac McCarthy su solitudine e ricerca di libertà in America.

Il racconto della solitudine

La bellezza di questo romanzo è intensa e disperata, in modo simile ai racconti del mare di Conrad. L’acqua manca, mancano le distese blu solcate da rotte per navi senza vento dove i capitani non cercano il lieto fine, ma la capacità di fare il proprio dovere. Eppure, con una sella al posto della nave, il nostro protagonista solca lo spazio in cerca di sé stesso, viaggiando per tante miglia quanti sono i suoi pensieri.

“Sembrava un araldo che recava notizie dalla campagna, un essere biblico appena sceso dal cielo che veniva portato giù dalle montagne e condotto a nord verso Monclova attraverso il monotono e piatto deserto.”


Raccontare la libertà è forse oggi un cliché dal punto di vista narrativo, una formula in cui diventa essenziale dosare sapientemente gli ingredienti di scrittura. Più complesso ed affascinante è scrivere di solitudine. Senza urlarlo in faccia al lettore, ma lasciando che a parlare per il personaggio sia l’ambiente che lo circonda. Le giumente, lo stallone, le mandrie, le montagne sullo sfondo, il cambio della stagione e lo scroscio di pioggia al banchetto nuziale…


Tutto questo corredo visivo ha più voce delle poche – ma intense – parole pronunciate dal protagonista. L’amicizia, la famiglia, l’amore e gli incontri fortuiti: qualcosa di vero c’è e resta. Molta illusione del mondo viene invece spazzata via, come la polvere che vortica in mulinelli stanchi dopo il passaggio furioso di cavalli selvaggi.

“Penso che la bellezza del mondo nascondeva un segreto, che il cuore del mondo batteva a un prezzo terribile, che la sofferenza e la bellezza del mondo crescevano di pari passo, ma in direzioni opposte, e che forse quella forbice vertiginosa esigeva il sangue di molta gente per la grazia di un semplice fiore.”

Cormac McCarthy, lo scrittore della solitudine e della ricerca di libertà.

titolo originale: “All the Pretty Horses”
anno di pubblicazione: 1992
casa editrice italiana: Einaudi

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