Un romanzo per descrivere la ricerca di libertà

Aspro è il deserto, aspra la polvere che si solleva ad ogni passaggio di zoccoli lanciati al galoppo. Aspra è la prosa scelta da Cormac McCarthy per descrivere la ricerca di libertà e scrivere di cavalli. Ecco un romanzo che non si limita a raccontare la fuga in sella verso nuovi orizzonti, ma parla di Messico, onore, gioventù e libertà. Ecco “Cavalli selvaggi”.


Il tempo di questo romanzo alza il sipario nel 1949 e non siamo ancora in Messico, ma in Texas. Per varcare la frontiera verso il Sud dobbiamo lasciare scalpitare il cavallo ancora per qualche pagina. Quel che basta all’autore per raccontare l’inizio della storia di John Grady Cole, protagonista cresciuto su di una sella e in cerca della sua strada.


John Grady è giovane, un ragazzo non ancora maggiorenne, ma quando entra in scena siamo portati a pensare che sia più grande. Forse perché ha assorbito la storia della sua cittadina e prima ancora quella della sua famiglia. E da queste due non c’è scampo, se non quello di sellare il cavallo e di cercare fortuna altrove. Come un tempo facevano i cercatori d’oro, o i veri cowboy, ma nel secondo Dopoguerra a stelle e strisce.

“Guardava il panorama con occhi socchiusi come se il mondo esterno fosse alterato o sospetto a causa di ciò che aveva visto altrove. Come se non potesse mai più vederlo come prima. O peggio, come se lo vedesse finalmente nel modo giusto. Com’era sempre stato e sempre sarebbe stato.”

Il romanzo di Cormac McCarthy va oltre lo scrivere di cavalli.

Scrivere di cavalli

Per scrivere di libertà senza risultare banali ci vogliono due elementi chiave: il talento e il coraggio. Il primo e il secondo non sono per forza di cose legati in uno scrittore ed è anche vero che l’approccio alla scrittura e la visione della libertà sono soggetti alle giravolte del tempo. A fare da collante fra questi due preziosi elementi narrativi si collocano i cavalli, indomiti compagni d’avventura.


Ci sono infatti alcuni elementi, forse chiamarli archetipi in questo caso è troppo, del nostro vissuto che riescono a comunicare bene a tutti le stesse cose. Lanciare un cavallo al galoppo, accamparsi sotto le stelle, sfidare le leggi non scritte di una casa padronale, tentare fortuna altrove, varcare un confine. L’elenco potrebbe andare avanti ancora a lungo, ma il concetto emerge chiaro fin da subito: scrivere di libertà ha una sua lingua.


Il deserto del Texas è diverso da quello del Messico. Lo si avverte nelle descrizioni, nel gioco di presenza/assenza di avamposti umani. Cambia la sabbia, forse cambiano anche le impronte lasciate dagli zoccoli; cambiano gli scenari, come quinte di un sipario che ad ogni scena si alza su nuovi mondi di storie. A cambiare è anche il nostro John Grady, che nel suo viaggio dell’eroe in chiave di romanzo di formazione, segue la rotta a briglia sciolta e pagando i conti di persona.

“Il ragazzo, che cavalcava poco più avanti, stava in sella come ci fosse nato, e infatti era così, ma dava l’impressione che, se fosse nato in uno strano paese privo di cavalli, avrebbe saputo scovarli ugualmente. Perché il mondo fosse a posto o perché lui fosse a posto nel mondo, si sarebbe accorto che mancava qualcosa e sarebbe andato in giro continuamente e dovunque finché non si fosse imbattuto in un cavallo, e allora avrebbe capito subito che il cavallo era e sarebbe sempre stato quel che cercava.”

"Cavalli selvaggi", il romanzo di Cormac McCarthy su solitudine e ricerca di libertà in America.

Il racconto della solitudine

La bellezza di questo romanzo è intensa e disperata, in modo simile ai racconti del mare di Conrad. L’acqua manca, mancano le distese blu solcate da rotte per navi senza vento dove i capitani non cercano il lieto fine, ma la capacità di fare il proprio dovere. Eppure, con una sella al posto della nave, il nostro protagonista solca lo spazio in cerca di sé stesso, viaggiando per tante miglia quanti sono i suoi pensieri.

“Sembrava un araldo che recava notizie dalla campagna, un essere biblico appena sceso dal cielo che veniva portato giù dalle montagne e condotto a nord verso Monclova attraverso il monotono e piatto deserto.”


Raccontare la libertà è forse oggi un cliché dal punto di vista narrativo, una formula in cui diventa essenziale dosare sapientemente gli ingredienti di scrittura. Più complesso ed affascinante è scrivere di solitudine. Senza urlarlo in faccia al lettore, ma lasciando che a parlare per il personaggio sia l’ambiente che lo circonda. Le giumente, lo stallone, le mandrie, le montagne sullo sfondo, il cambio della stagione e lo scroscio di pioggia al banchetto nuziale…


Tutto questo corredo visivo ha più voce delle poche – ma intense – parole pronunciate dal protagonista. L’amicizia, la famiglia, l’amore e gli incontri fortuiti: qualcosa di vero c’è e resta. Molta illusione del mondo viene invece spazzata via, come la polvere che vortica in mulinelli stanchi dopo il passaggio furioso di cavalli selvaggi.

“Penso che la bellezza del mondo nascondeva un segreto, che il cuore del mondo batteva a un prezzo terribile, che la sofferenza e la bellezza del mondo crescevano di pari passo, ma in direzioni opposte, e che forse quella forbice vertiginosa esigeva il sangue di molta gente per la grazia di un semplice fiore.”

Cormac McCarthy, lo scrittore della solitudine e della ricerca di libertà.

titolo originale: “All the Pretty Horses”
anno di pubblicazione: 1992
casa editrice italiana: Einaudi