Per chi ama parlare del lato oscuro dei social media, la serie Netflix CLICKBAIT riserva interessanti sorprese. O forse no. C’è chi la critica, chi la ritiene poco originale o semplicemente in ritardo sui tempi. Eppure, parlare di catfishing, il fenomeno dell’adescare qualcuno online tramite un’identità fake, è sempre attuale.
Come già per i blog post su STRANGER THINGS e su SQUID GAME, anche in questo caso sconsiglio di proseguire nella lettura se non avete ancora visto la serie TV. Farò un po’ di spoiler su trama, personaggi e soprattutto tematiche. Dopo essere rimasta col fiato sospeso fino al finale di stagione, penso che per chi come me si occupa di comunicazione sia interessante provare a scriverci sopra qualcosa.
Dal punto di vista narrativo, guardare CLICKBAIT non è solo sentirsi immersi nel lato oscuro dei social. Si tratta anche di provare davvero ad immedesimarsi con i personaggi. Questo è possibile non solo perché la domanda sorge spontanea: e se capitasse a me? Se rubassero i miei di dati personali per creare un profilo fake su una app di online dating? L’empatia con le vittime della serie thriller scatta anche grazie alla scelta narrativa di cambiare continuamente il punto di vista. Così facendo, ogni personaggio è legittimato a raccontare la storia attraverso i propri occhi. In pratica, il dipanarsi del giallo è reso possibile grazie ad un attento e continuo passaggio di testimone. Forse nulla di realmente nuovo, ma funziona bene.
Con lato oscuro dei social media, s’intende qui ciò che il mondo social può comportare anche nella vita reale. Gli errori commessi online, che all’apparenza possono sembrare soltanto un gioco, assumono tinte inquietanti nel momento in cui impattano sulla realtà delle nostre vite. Vale la pena guardare CLICKBAIT in lingua originale, anche per cogliere le diverse sfumature comunicative, a cominciare appunto da quelle linguistiche. L’inglese colloquiale usa parecchi acronimi e molti di questi sono arrivati a noi proprio tramite l’uso intensivo dei social.

Tra questi acronimi in particolare, IRL è forse quello più evocativo in tutta la serie. In Real Life risulta essere qui sia un augurio che un’opzione non più trascurabile. Dobbiamo incontrarci nella vita reale, parlare a tu per tu. Non solo via messaggio, non in call e non unicamente sui social. Già da esseri umani siamo bravi ad ingannarci anche in presenza, figuriamoci poi tramite app.
Forse non suona bene detto da una copywriter di Brescia e provincia che lavora anche con i social media. Ma il rischio di farci un’idea della realtà e soprattutto delle persone diversa da quella effettiva è concreto. Certo, da questo punto di vista CLICKBAIT non aggiunge niente di nuovo. La trama e soprattutto gli sviluppi della serie Netflix ci aiutano però a comprendere meglio come spesso ci vogliamo lasciare ingannare. E così facendo, cadiamo vittime di noi stessi e della nostra fervida ma non sempre sana immaginazione.

A cosa è imputabile l’omicidio di Nick Brewer? Perché tutti diventano matti a cercare di rintracciarne il corpo dopo che il video con la sua confessione è diventato virale? Forse la risposta (titolo dell’ultimo episodio) non sta in una persona. La spiazzante rivelazione del finale non è tanto chi ha effettivamente commesso il crimine, ma perché. E qui entra in gioco la protagonista nascosta di questo cosiddetto “lato oscuro” dei social media. La noia.
CLICKBAIT si gioca sui social a livello di interazione, di piste da seguire, di furto d’identità. Ma soprattutto ci racconta di persone che per noia sono disposte ad indossare i panni di qualcun altro. Per uscire dai meccanismi delle proprie noiose vite e sentirsi capaci di nuove conquiste. Questa ricerca spasmodica di attenzione, questa fame di sentirsi al centro e sotto i riflettori ha però un prezzo molto alto. CLICKBAIT forse non la dovrebbero guardare gli “addetti ai lavori” del mondo digitale. Andrebbe vista da chi crede s’illude che i social non abbiano conseguenze reali sulla vita reale, la nostra.