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content writer a caccia di storie luminose

Il ghiacciaio che scompare

Ogni cosa che sparisce ha un suono. Un suono che stiamo per perdere, un suono che scorre come il vento per non tornare più. Non è raro che gli elementi della natura condividano la caratteristica della mutevolezza. Non si tratta solo di un aspetto di forma, ma proprio della stessa sostanza di cui sono fatte le cose: la sottile ed immensa differenza tra l’esserci e il non esserci. Il perdurare appartiene a pochi. Il durare in eterno dovrebbe essere prerogativa dei ghiacciai, i nostri grandi serbatoi d’acqua dolce. Il ghiacciaio che scompare è il ghiacciaio visto sotto la prospettiva della nostra epoca. Una prospettiva d’incertezze, dove la precarietà sembra essere divenuta parte integrante del chi siamo e del dove stiamo andando.

Temù, 4 agosto 2023.

Il ghiacciaio che scompare, in qualche modo anche abbastanza esplicito è lo specchio dei nostri tempi. Per questo mi va di tornare sull’argomento, non senza prima fare una premessa. Così com’è impossibile bagnarsi due volte nello stesso fiume, allo stesso modo è utopistico pensare di poter preservare tutto. Significherebbe che il mondo non cambia, che noi non siamo soggetti alle leggi eterne del Tempo. Eppure, ci sono elementi che in questo vellutato scorrere di mutevolezza dovrebbero restare tali. Scogli in mare ai quali aggrapparci nel naufragare – non sempre dolce – dei nostri pensieri. Tutto scorre, tutto muta, ma i ghiacciai delle nostre Alpi non dovrebbero essere sul punto di morire. Se lo sono – e in buona parte lo sono – diventa opportuno farsi delle domande.

Avevo già toccato l’argomento, sempre su questo blog. Scrivevo del nostro addio al freddo, colpita da un libro e da un progetto sonoro. Torno sull’argomento per tante ragioni che, a differenza della similitudine tra i nostri tempi sdrucciolevoli e le nevi perenni in discioglimento, non sono così esplicite. La prima è che sto scrivendo un reportage sull’Armenia, una terra carica tanto di mistero quanto di senso di perdita. La seconda è che vivo uno dei miei periodi in cui il bisogno di portare fuori da me l’introspezione si fa più forte. Ed è un’introspezione che grida, urla della necessità di non lasciare che le cose – quelle importanti – vadano perse. Nello scorrere dei giorni, nell’assottigliarsi degli anni, che come la crosta sottile dei secoli si fanno lastre scivolose senza lasciare appiglio.

C’è un sottofondo drastico in queste parole, me ne rendo conto. Ma è dato da una sensazione di urgenza, non solo espressiva. Si tratta della stessa sensazione che ho avuto all’uscita da un evento, venerdì scorso. Ero a Temù (Brescia) per riascoltare UN SUONO IN ESTINZIONE, lo stesso progetto di ricerca artistico-scientifica che mi aveva colpita qualche mese fa. All’evento, inserito nel calendario dei festeggiamenti per i 40 anni del Parco dell’Adamello, oltre a Sergio Maggioni – curatore del progetto – partecipavano anche i volontari del Servizio Glaciologico Lombardo. Una realtà che si occupa di studiare, monitorare, fare ricerca sui ghiacciai, senza trascurare gli aspetti di formazione-divulgazione e il mantenimento del territorio. Ho ascoltato – come i tanti riuniti in sala – le voci dei volontari, seguite dal lamento del nostro Ghiacciaio dell’Adamello. Il ghiacciaio che scompare.

I dati che riporto in questo pezzo vengono dalla serata. Se qualcosa non corrisponde alla realtà, può essere che sia dovuto all’emozione di averli appuntati mentre realizzavo in modo ancora più chiaro quanto poca sia la vita che resta a questa meravigliosa riserva di acqua dolce. Oggi il Ghiacciaio dell’Adamello ha un’estensione sotto i 14 chilometri quadrati, per circa 270 metri di profondità. In Lombardia ci sono 203 ghiacciai. Sulla Terra se ne contano 198.000. Ma sono dati in continua evoluzione, ai quali appigliarci ora giusto per comprendere meglio il fenomeno. Dei nostri ghiacciai, ogni anno in Lombardia perdiamo una superficie che si aggira sui 220 campi da calcio. Duecentoventi campi da calcio che si sciolgono. All’anno. Ogni anno.

Non si tratta solo di parti di ghiacciaio. In alcuni casi, sono ghiacciai veri e propri. Entità un tempo salde e sicure, che contribuivano a rendere saldo e sicuro il mondo di nostra conoscenza, la realtà di nostra competenza. Il Ghiacciaio del Trobbio è un esempio di realtà che non esiste più. Cosa c’è al suo posto? Cosa resta quando il ghiacciaio che scompare è diventato cosa del passato? In alcuni casi resta la vegetazione che sale di quota, in altri l’invasione antropica che non si fa sfuggire l’occasione. Soprattutto, resta meno acqua. Il 28% dell’acqua che arriva alla foce del Po deriva dalla fusione – un fenomeno naturale – dei ghiacciai. Facile immaginare come da quest’acqua dipendano agricoltura, economie locali, produzioni elettriche, sviluppi territoriali.

Temù, 4 agosto 2023.

Ma non è solo questo che stiamo perdendo. A venire meno è anche la memoria del nostro passato, come ci raccontano i progetti di carotaggio e studio degli strati di ghiaccio dei ricercatori di ADA270 e CLIMADA. Saranno proprio questi studi a permetterci di capire la vita dell’ultimo millennio, grazie all’analisi della memoria storica contenuta nel Ghiacciaio dell’Adamello. Il ghiacciaio che scompare. Il ghiacciaio al quale restano – se le condizioni attuali di surriscaldamento non variano – ancora 4 decenni di vita. 40 anni, non di più.

Il Ghiacciaio dell’Adamello è il più grande in Italia. Dal carotaggio di ADA270 del 2021 ad oggi, ne abbiamo già perso ben 5 metri in profondità. La sua area di accumulo praticamente non esiste più. Un’idea della rapidità del fenomeno? Quando sono nata io, nel 1988, il ghiacciaio misurava sui 2.221 ettari. Oggi siamo sotto i 1.400. Ho 35 anni, io non so se nel frattempo sono davvero cresciuta. Di contro, lui di sicuro si è fatto più piccolo. E questo perché fino agli anni Ottanta l’andamento della temperatura era abbastanza costante. Non come le impennate del 2015 o del 2022. Che non vanno prese solo a livello singolo, ma contestualizzate in un trend di cambiamento. Preciso che non sono una glaciologa, una scienziata. Sono una professionista della comunicazione che crede nel potere della divulgazione. Eppure, a me tutto questo sembra così chiaro. E così inquietante.

Temù, 4 agosto 2023.

Il suono del ghiacciaio nell’arco della giornata è come il respiro di un gigante. Quando dorme fa meno rumore. Con il crescere della luce e della temperatura aumenta di decibel, rendendo più intensa la sua attività di scioglimento. Un fenomeno che sarebbe anche normale, se riuscisse poi a recuperare neve da trasformare in nuovo ghiaccio. Invece continua a perdere, scivolando a valle in acqua dolce che a un certo punto arriva al mare, dove dolce non lo è più. Di ciò che ha detto Sergio Maggioni venerdì sera c’è una cosa in particolare che mi sono appuntata: “il suono di una cascata di fusione si propaga per chilometri.” Cosa sentiremo in montagna – e nei chilometri tutti attorno – quando questo suono si spegnerà? Quando il ghiacciaio che scompare apparterrà alla memoria uditiva del nostro passato?

Stiamo perdendo una parte di chi siamo, di chi siamo stati e anche di chi saremo. Per poter parlare in modo consapevole di futuro, credo sia fondamentale avere chiare le radici su cui poggia il nostro presente: il passato. Un passato che è fatto anche di storie di ghiaccio, storie che raccontano come il mondo è mutato nell’ultimo millennio. Storie in grado di dirci verso quale direzione abbiamo deciso d’avventurarci. A noi la scelta di preservare il preservabile, facendo in modo che una componente identitaria del nostro essere – componente che coincide con un fondamento di sopravvivenza per i nostri sistemi – non si sciolga per sempre. Cosa resterà del ghiacciaio che scompare? Mi piace pensare che la risposta non sia: “il silenzio”.

CARLOTTA Streghe, fantasmi e luoghi misteriosi in Valle Camonica

Sono emozionata. Sono emozionata perché era da un po’ che non preparavo più la presentazione di un libro. E sono emozionata anche perché il romanzo di Sara Brizzi, CARLOTTA Streghe, fantasmi e luoghi misteriosi in Valle Camonica, mi ha piacevolmente sorpresa. Per questo le ho chiesto se, in vista della presentazione del 5 maggio a Ono San Pietro (vi lascio i dettagli nell’immagine sotto) potessi scriverci sopra due righe. Fa sempre un po’ strano scrivere su qualcosa che è stato scritto da qualcun altro. Sembra di andare nel campo del meta, della “somma di mille riassunti“, per dirla un po’ alla Bersani. Ma questo spazio è stato pensato anche per accogliere le storie luminose di altri. E questo romanzo ha il suo bel raggio luminoso da proiettare sulle storie di tutte noi.

Ho accettato di presentare il libro praticamente a scatola chiusa, mi è bastato il titolo. Da quando mi sono messa sulle tracce del femminino sacro, le storie di stregoneria tornano spesso a farmi visita. E poi la richiesta arrivava da una vecchia conoscenza e il luogo m’intrigava. Con Sara sono finita prima a sentirmi per telefono, poi via mail, infine di persona. Avevo quindi ricevuto indizi a sufficienza per arrivare alla lettura sapendo più o meno che cosa aspettarmi sul piano narrativo. Eppure, verso la fine delle pagine due lacrimucce mi sono scese comunque.

Senza fare troppo spoiler su questo romanzo uscito l’anno scorso, ci sono diversi aspetti della narrazione che mi hanno colpita. Oltre alla caratterizzazione dei personaggi, ecco cos’ha risvegliato il mio interesse: la dimensione magica, quella femminile e l’ambientazione storica. La convinzione che le cose nella vita non arrivino mai a caso mi ha fatto sorridere il cuore prima e durante la lettura. Forse perché sono anche io sulle tracce di alcune mie antenate, mi sono sentita presto coinvolta.

Sara già al telefono aveva messo le mani avanti: “La mia è una storia semplice, volevo che emergesse quella dimensione magica che contraddistingue l’infanzia. In una cornice pulita, legata alla montagna e alle tradizioni di una volta.” Vero. La vicenda narrata potrebbe a un primo sguardo sembrare semplice. Ma più ci s’inoltra nella lettura, meglio si percepisce il lavoro d’intreccio di alberi genealogici a livello matrilineare. Storie di persone che la fantasia della scrittrice ha unito a diverse leggende dell’Altopiano del sole.

Per la maggior parte del romanzo infatti, ci troviamo grosso modo nell’area di Borno, Paline, Prave. Antichi borghi segnati dal passare del tempo e da un sostrato d’aghi di pino, storie tramandate di generazione in generazione e suggestioni popolari. La protagonista è la Carlotta del titolo, che nel corso della narrazione scopre di avere ricevuto delle abilità particolari. Abilità che ha in comune con altre figure femminili del romanzo e che le consentono in qualche modo di squarciare il velo tra il mondo visibile e quello invisibile. Così entrano in gioco presenze del passato, a volte colpevolizzate proprio per abilità simili: in alcuni casi percepite come maledizioni, in altri come veri e propri doni.

Di Carlotta, Simona e delle altre donne del romanzo preferisco che sia direttamente Sara a parlare il 5 maggio. Oppure che il lettore ne scopra le caratteristiche leggendo il libro. Qui m’interessa invece indagare alcuni aspetti non tanto della narrazione, quanto del fascino che questi argomenti ancora suscitano. E penso che questo fattore sia spesso legato ad una questione di luoghi e di vissuti strettamente personali.

Quando qualcosa ci chiama, chiama noi al singolare. Ci chiama perché risuona nel nostro vissuto, nella nostra vocazione, nel nostro modo di essere. Possiamo anche essere curiosi di qualcosa in generale, ma per sentirci davvero legati abbiamo bisogno di calarci nel particolare, nel dove, nel quando e nel come. Sarà che a questa lettura ho intervallato Il codice dell’anima di quel meraviglioso immaginalista di Hillman, ma queste convinzioni mi si sono radicate dentro. Per mostrarsi nella sua potenza, la ghianda della nostra vocazione interiore chiede almeno un mentore e sicuramente molti stimoli in cui permetterci di riconoscere la sua essenza.

Quando era rimasta incinta la prima volta, aveva sperato di partorire un figlio maschio, perché aveva letto che i poteri si trasmettevano di figlia femmina in figlia femmina e aveva desiderato interrompere quella catena, ma non ci era riuscita, perché aveva avuto tre figlie femmine.”

“CARLOTTA. Streghe, fantasmi e luoghi misteriosi in valle camonica”, di sara brizzi, p152-153

CARLOTTA Streghe, fantasmi e luoghi misteriosi in Valle Camonica mi è risuonato dentro perché sono alla ricerca delle mie antenate e della forza intrinseca dei luoghi in cui sono vissute. Una linea sottile che permette di salire di figlia in madre percorrendo a ritroso le proprie radici. Dopotutto, i secoli ci parlano non tanto per date e fatti storici, quanto per i miti e le storie che li hanno contraddistinti. Per le persone con cui sentiamo di avvertire una connessione, scoprendo che il Tempo lineare esiste solo come invenzione del pensiero razionale.

Per questo nel leggere il romanzo, per quanto semplice Sara lo voglia definire, mi sono sentita in qualche modo a casa. Mi sono sentita a casa nel suo cercare di tramandare aneddoti e ricordi, affinché i racconti di famiglia non andassero perduti. Mi sono riconosciuta almeno un poco nel suo desiderio di andare a ritroso, quando non nella realtà dei fatti almeno con la forza dell’immaginazione. E ho amato il suo interessarsi al concetto di “dono“.

Nel libro, il dono è qualcosa che si eredita per via materna e che appartiene quasi esclusivamente alle donne. Qualcosa che rende speciale la persona in quanto le conferisce una caratteristica per lo più assente nel vasto panorama dell’essere umano. Sognare, avvertire presenze, riconoscere un forte legame con la Natura e le sue forze. Questi sono doni, non sono soltanto espedienti narrativi del genere fantasy. Possiamo scegliere di ignorarli, soffocarli, abbandonarli, ma sarà sempre a nostro svantaggio. Possiamo decidere di connotarli in modo negativo, soprattutto quando non ci appartengono… ma sarà fonte di incomprensioni, divisioni, congetture e anche persecuzioni.

Ascoltare e provare a comprendere le leggende è una scelta. Risalire un ipotetico albero genealogico è una scelta. Aggrapparsi a un territorio e alle vicende che ne hanno plasmato l’immagine è un’altra – forte – scelta. Viviamo di scelte, viviamo delle immagini che proiettiamo e in cui scopriamo di sentirci a casa. Ecco perché credo che anche un “semplice” libro che scavalla il fantasy e tocca il cuore “semplice” di un bambino abbia tanto da dire. Soprattutto alle donne, spesso perseguitate nel corso dei secoli. Solo in parte consapevoli del loro immenso potere e di tutto il fascino della loro storia, sia essa collettiva o personale. Ben venga la narrativa allora. Ben vengano le donne che si mettono sulle tracce delle altre donne e di ciò che le rende, semplicemente, “speciali”.

La Valle Camonica alle radici d’Europa

Ci sono fenomeni lunghi, ampi e larghi. Cambiamenti che interessano il nostro modo di pensare il mondo, di viverlo e conoscerlo. Trovare traccia di queste rivoluzioni epistemologiche, spesso lente e raramente lineari, è una benedizione. Inseguendone il corso, impariamo a comprendere meglio la nostra Storia e anche l’origine del nostro modo di essere. Dopo Pagine di pietra, ho deciso di addentrarmi ulteriormente nei millenni di questa terra. Questa volta, ad accompagnarmi è stato un libro che colloca la Valle Camonica Alle radici d’Europa. Edito da Electa, pubblicato nel 2022, questo volume di Umberto Sansoni con prefazione di Emmanuel Anati, andrebbe divulgato il più possibile.

Ho scelto d’inserire qualche riflessione scaturita dalle pagine – e dalle rocce – su questo blog. Forse perché questa sezione del sito, invece che chiamarsi appunto piattamente Blog, va sotto il nome di Storie luminose. E di luce, appunto, da queste incisioni ne esce tanta. Come in ogni cosa poi, nella storia così come nella comprensione dei luoghi – ho Napoli che palpita ancora sotto le palpebre – la differenza la fa la visione. Il “cosa mi porto a casa” da una città, così come da una lettura, è una questione di esperienze, emozioni, accadimenti. Ma soprattutto, si tratta di riuscire ad inquadrare gli elementi in modo tale che ti parlino, restituendoti un messaggio.

Già, ma come si forma un significato? In che modo costruiamo dentro di noi una lettura della realtà? Credo sia affascinante porsi la domanda ogni volta che ci rapportiamo a qualcosa di nuovo. Prevale un approccio materico, oppure quello prettamente emotivo? Bellezza è pensare che esistano più lenti attraverso cui scrutare il mondo. E che per sceglierle facciamo riferimento al personalissimo sostrato di vita sul quale poggiamo, ma anche alla visione figlia della cultura in cui viviamo. Weltanschauung, sì: stiamo parlando proprio di quella.

Qual era quella degli antichi abitanti delle vallate alpine? Per capirlo, leggerlo, studiarlo e farlo nostro, è prima di tutto interessante provare a ribaltare i termini di confronto. Quale approccio sto io adottando nel cercare di comprendere la visione degli antichi? Secondo quali parametri sono disposto ad interpretarne il lascito?

Alle radici d’Europa di Umberto Sansoni mi è piaciuto perché coraggioso. È coraggioso nell’andare a provare a leggere 10 secoli di storia della Valle Camonica. Ed è coraggioso nel provare a farlo con un taglio non eccessivamente tecnico, bensì abbastanza divulgativo. E lo fa mettendo insieme i singoli pezzi, provando cioè ad interpretarne la valenza in un insieme più complesso. In una visione d’insieme. Insomma: questo libro mi è piaciuto perché mi è stato utile nel provare a capire come si sia evoluta la visione del mondo di chi ha vissuto la mia Terra nel corso dei millenni.

Di questo, c’è un aspetto in particolare che m’interessa e in cui la pubblicazione mi è stata di grande aiuto. Come siamo cambiati? Quando e quindi anche perché, ad un certo punto abbiamo smesso di dare valore agli stessi principi? Sembrerà banale a chiedersi – in 10.000 anni grazie al piffero che si cambia! – ma osservare da vicino questo moto di modifica interiore è quantomeno arricchente. E sconcertante. Provo a raccontarne il perché.

Prima però contestualizziamo: il libro che ho tra le mani, e che colloca le incisioni rupestri di Valle Camonica alle radici d’Europa, ha solo qualche mese. È però il frutto di almeno 4 decadi d’interessamento personale da parte dell’autore e si basa sia sull’osservazione diretta che sul confronto delle fonti, appoggiandosi quindi anche a studi preesistenti. Ora, qualcuno potrà forse obiettare che noi Camuni abbiamo la leggera tendenza a sentirci al centro del mondo. Perché dovremmo osservare proprio la nostra terra per comprendere come la visione da cui è scaturito l’odierno pensiero occidentale si è evoluta oltre i millenni?

Perché la Valle Camonica vanta la principale concentrazione d’arte rupestre del continente. Sì, ma perché andare ad analizzare proprio le incisioni rupestri? Bè, perché hanno preceduto – e di parecchio – l’arte della scrittura così come comunemente la intendiamo. Queste testimonianze sulla roccia hanno avuto la capacità di durare e perdurare nel tempo. Quanto rappresentano, che si tratti di immagini del realmente vissuto, oppure di un mondo idealizzato, è come un lungo racconto su un’immensa lavagna. Una lavagna che per 10.000 anni almeno, se impariamo a leggerla, ci restituisce le radici del mondo alpino. Oppure… oppure proprio dell’intero continente europeo, vista l’esiguità di fonti a parimerito non deperibili. Fantastico. Pazzesco. Ma cosa ci raccontano?

Con questo pezzo non mi voglio addentrare nei riconoscimenti internazionali, nelle soglie tra una scuola di ricerca e l’altra né tantomeno nelle modalità di gestione del patrimonio del nostro territorio. Come già evidenziato nel pezzo sul testo Pagine di pietra, non sono un’archeologa. Aggiungo qui che non faccio politica e che a muovermi è un interesse di carattere personale. Ho bisogno di capire. Di esplorare perché ad un certo punto il principio del femminino sacro anche qui sia uscito dai radar. E le incisioni rupestri, prese in ordine di apparizione, ci restituiscono lo spaccato della visione del mondo – quella Weltanschauung che tanto figo fa citare – che progressivamente è andata mutando.

Certo, si tratta di cose note: ad un certo punto la donna ha assunto minore importanza nel corso dei secoli. E con essa, tutto il corredo di compiti e valori che si portava dietro. Ma seguire il tracciato di questa sparizione progressiva su un’immensa lavagna estesa a buona parte del territorio camuno penso sia emozionante. E anche utile: come dicevamo sopra, l’abbondanza di queste tracce durature ci permette di osservare l’evoluzione del pensiero alpino. E, in fin dei conti, anche di quello occidentale. In pratica sì, qui poniamo davvero la Valle Camonica alle radici d’Europa!

Altra precisazione doverosa: quello di Sansoni non è un libro specifico sul femminino sacro. Qui sono io che ne prendo un filone, una vena aurifera, e che ne seguo il corso per comprenderne l’evoluzione. Penso però che chi vive con entusiasmo la dinamica del femminino e quella delle testimonianze antiche possa trovare materiale interessante tra queste pagine. A cominciare dalle incisioni rupestri che raffigurano donne o oggetti, situazioni, cui queste venivano associate. Ad un certo punto però, come anticipato sopra, queste raffigurazioni al femminile arrivano a un’eclissi.

Utile è comprendere l’alternarsi delle scoperte e di come hanno rivoluzionato l’asse del pensiero. Una di queste fu l’agricoltura. Il mondo smise di essere un luogo in cui vivere dediti alla caccia e alla raccolta e la concezione stessa della Natura probabilmente cambiò. Immaginiamoci i nostri antenati che passano da un’attenzione animista verso l’ambiente in cui sono immersi ad una vita di tipo sedentario in cui la concentrazione si focalizza sulle attività antropiche. E quando si parla di agricoltura ci sono i campi da arare, seminare, curare finché qualcosa non germina, cresce, muore, si rinnova. L’eterno ciclo di sali-scendi dalle viscere della Terra al mondo per come lo conosciamo. Azioni in cui la donna ha un ruolo molto importante, e si sente.

La figura dell’orante, il leitmotiv, è ripetuta in centinaia di immagini con un’enfasi scenica sulla dimensione femminile (in percentuale, il 55% delle figure sessuate), che ben si accorda con il risalto della figura muliebre nell’intero quadro neolitico continentale. Pur non mancando i contesti caratterizzati da una forte attenzione per l’immagine maschile […], raramente associata all’altro sesso, e pur essendo numerose le figurazioni asessuate (perlopiù però sospette di essere femminili o comunque connesse in delle rappresentazioni con figure femminili), emblematiche sono le numerose scene in cui l’orante femminile è centrale, fulcro o interprete unico”

“ALLE RADICI D’EUROPA”, di Umberto Sansoni, p27

Ma il cambiamento di visione introdotto dall’agricoltura non è l’unica rivoluzione alla Weltanschauung che troviamo sulle nostre antiche incisioni. Nel III millennio a.C., con il Calcolitico, si verifica un’altra grande svolta. Sulle rocce affioranti emerge ora un approccio più spontaneo, con simbologia ctonia. Sulle stele invece, si erge uno stile più ortodosso, con simbologia uranica. Qualcosa inizia a mutare quindi. Iniziamo già ad assaporare le radici del culto del guerriero, della società patriarcale. E scopriamo l’amore e il rigore delle strutture megalitiche. Siamo agli albori, al seme della visione indoeuropea. Si punta verso l’alto, s’impianta un nuovo ordine cosmico, gli uomini costruiscono dei veri e propri siti. L’elemento solare emerge in posizione centrale e, in generale, si assume un approccio sempre più monoteista.

Poi, in questo viaggio nella Valle Camonica alle radici d’Europa, qualcosa cambia ancora. Siamo nell’Età del Bronzo, quando armi e monili vengono affidati anche alle acque. Come al Lago d’Arno, dove sono stati rinvenuti un’ascia a margini rialzati e degli spilloni. E piano piano, chi è in grado di forgiare e lavorare il metallo assume un ruolo di rilievo. Padroneggia l’elemento del fuoco, lo stesso usato per i riti del Brandopferplatz. L’arma e il disco diventano i cardini rappresentativi del nuovo assetto simbolico. Sono l’essenza della trionfante visione uranica, sacerdotale e guerriera. Sono questi i secoli del fabbro, delle divinità del tuono e del fulmine. L’eroe assume la sua spada e con essa s’identifica, dalla sacralità del suo metallo trae forza e prestigio. Il processo di Indoeuropeizzazione ha ormai solide fondamenta.

Ma il mondo femminile qui c’è ancora. Ci sono le palette, i telai della tessitura muliebre, c’è la ritualità sciamanica. C’è, ma si avvia verso il declino. E con l’Età del Ferro entriamo gradualmente nella Storia. Entriamo nella fase che in assoluto ha avuto la maggiore diffusione di incisioni rupestri, probabilmente anche con la nascita di scuole artistiche. Tutto ha inizio nel XII secolo a.C., con un raffreddamento del clima e le grandi invasioni di popoli di matrice indoeuropea.

Ora, a farla da padrone assoluto nelle raffigurazioni è la figura del guerriero. La società si è stratificata, l’assetto è eroico-aristocratico. Da noi forse mancano gli eserciti, ma il senso di conflittualità è costante. La donna è praticamente assente, tranne che in alcuni simboli e in scene di accoppiamento. Ricordiamolo: è al momento dell’accoppiamento che ha luogo l’unico atto generativo di carattere maschile.

La storia delle incisioni rupestri prosegue. Continua attraverso i secoli, arriva fino a qualche decennio fa. Cambia la visione del mondo, cambia chi la fa da padrone, cambiano i culti. Ma qualcosa, come abbiamo visto, è già andato perduto. E da questo dipendeva il mio senso di sconcerto iniziale. Perché se la nostra cultura occidentale si basa sì sui Greci antichi, ma ha come sostrato la visione del mondo di ceppo indoeuropeo, allora è vero. È vero che da interi millenni ci portiamo dentro il gene di una mancanza. Di una perdita. Di un principio primo, quello femminile, che eclissandosi ha scompaginato il nostro equilibrio (interiore ed esteriore).

Ecco perché questo viaggio che pone la Valle Camonica alle radici d’Europa è per me stato più che leggere un testo. Ha significato andare alla origini di questa mancanza. Ringrazio chi per decenni ha dedicato i propri sforzi allo studio costante di quella grande lavagna di pietra che è la nostra valle. Sono grata per ogni spunto che la lettura del libro Alle radici d’Europa. Dieci millenni d’arte rupestre in Valcamonica e nelle Alpi Centrali di Umberto Sansoni è stata capace di offrirmi. E ringrazio gli antichi, ma soprattutto le antiche. Che a un certo punto siate sparite da questa lunga e complessa lavagna è per me ancora motivo di profondo rammarico. E un po’ anche di mistero.

Napoli, città di magia e metamorfosi

Impariamo troppo presto a giudicare e solo con un certo ritardo scegliamo cosa e come ascoltare. Rientro da un viaggio in un luogo che non conoscevo e sono profondamente grata alle sirene. Creature di mare di cui questa città ancora conserva la voce. Partenope, secondo una delle tante versioni della leggenda, viene portata a riva dai flutti. Il suo corpo privo di vita trova rifugio in un sepolcro. Sono i tempi del mito e già la bellezza intensa di una costa avida di storie si lascia presagire. Napoli, città di magia e metamorfosi, è sul punto di nascere. Una nascita che tanto somiglia ad un superamento della soglia, per un luogo in cui morte e vita sembrano destinate da sempre a condurre insieme la loro fervida danza.

E come ogni cosa di valore che arriva nel mondo e che poi al mondo si plasma, ecco che essa si ricopre delle briciole di un banchetto di cui l’umana gente non è mai sazia: il pregiudizio. Sono stata a Napoli per concedermi una pausa, ma il processo mi ha ricordato di più un rito di passaggio. Non pensavo di covare dentro un desiderio così forte di riprendere a viaggiare, anche solo per pochi giorni e restando in Italia. Non avevo mai visto Napoli e negli anni mi ero fatta una corazza anche di stereotipi negativi che, purtroppo, al Nord abbondano.

Lo ammetto, come molti in questo periodo, anche io sono stata in qualche modo influenzata da Mare Fuori, di cui nelle ultime settimane sono diventata fan. E così fa un po’ strano essere partita proprio da questa serie, che per chi ancora non lo sapesse narra le vicende dei ragazzi rinchiusi all’IPM di Napoli. Fa strano, perché mischiare realtà e finzione può essere un problema quando si vuole cercare di conoscere un posto. E fa ancora più strano quando molte delle persone con cui sono entrata in contatto a Napoli hanno sottolineato quanto poco credito si debba dare a queste narrazioni. Soprattutto, dalle loro parole è emerso anche il fastidio nell’essere perennemente vittime di uno stereotipo. Quello della città camorrista, delinquente e senza via di fuga da una storia già scritta.

Ho riflettuto molto, per quel poco di tempo che avevo a disposizione per il viaggio. E mi sono sempre più accorta di come le storie raccontate da fiction come Mare Fuori (o la stessa Gomorra, che confesso di non avere mai visto), siano pian piano finite con il ricoprire la veste di una delle figure retoriche con cui è più difficile fare i conti: la sineddoche. Quella che al liceo conoscevo come “la parte per il tutto”. Mi sono addentrata fra le viuzze, i Quartieri Spagnoli, il Vomero, Santa Lucia, Chiaia, Posillipo. Conscia del fatto di essere una signora nessuno e dell’avere zero esperienza in materia. Mi sono ritrovata a pensare a come un tipo di narrazione finisca spesso per assumere la funzione del raccontare il tutto per intero. Napoli ha certamente un volto di criminalità organizzata. Ma Napoli non è la criminalità organizzata tout court.

Ovviamente, messa così è una banalità. Nulla si definisce mai in modo univoco e nessun luogo – al pari del genere umano – ha mai un’unica identità che lo connota in modo totalizzante. Eppure, su Napoli le narrazioni di questo genere tendono a moltiplicarsi e a rafforzarsi a vicenda. Ripeto: sono una fan di Mare Fuori. Come direbbe Carmine: “Notizia del giorno” la colpa non sta nella singola serie TV. Se una colpa esiste, di questa versione dei fatti parziale che tende a prendere il sopravvento fino a creare un pregiudizio tale da nascondere il volto autentico delle cose, allora è imputabile a più fattori. Primo fra tutti, forse, la nostra mancanza di curiosità.

La curiosità è un bene prezioso. Va innaffiato, coltivato, curato in maniera costante per fare sì che non si sciupi e che resti sempre verde, in grado di autorigenerarsi. E non c’è niente come l’autenticità per nutrire questo bene. Diventiamo curiosi di qualcosa che ci trasmette il vero. Anche quando si tratta di narrativa – e quindi appunto di fiction, di finzione – se questa ci trasmette l’autentico attraverso il verosimile, sentiamo di avere capito meglio anche solo una piccola parte di qualcosa. E Napoli, fra i suoi mille quartieri, le sue tante realtà e molteplici verità, mi ha restituito l’immagine di un’identità composita, estremamente sfaccettata. Complessa, ma forse proprio per questo anche fortemente autentica.

Sono partita dicevo da una serie che mi ha profondamente incuriosita, dalla fame di vedere una città mai vista prima e ho provato – giurin giurello – anche a guardare la Lonely. Ma non c’è stato verso. Mi serviva un’esperienza diretta, quindi piuttosto di scartabellare i dettagli di ogni monumento, ho preferito impiegare le ore di treno leggendo d’altro. Posto che il mio compagno nel frattempo aveva già ingurgitato le informazioni principali (sant’uomo), io ho semplicemente girovagato. Fino a che non mi sono imbattuta in un’altra guida, trovata anche questa per una strana curiosità che mi ha portata prima ad entrare a Port’Alba tra i librai e poi a ritrovare una libreria di recente riapertura, ancora mezza sommersa dai ponteggi. E qui, mi sono innamorata di una copertina e poi di tutto il pacchetto: Napoli magica, di Vittorio Del Tufo.

Me tapina, non conoscevo la lunga tradizione esoterica di questa città; non conoscevo nemmeno l’autore, che invece tra le altre cose tiene una bellissima rubrica domenicale – L’uovo di Virgilio – sul Mattino di Napoli. La figura in copertina invece, avrei presto imparato ad amarla: si tratta della statua di Antonio Corradini, quella che ritrae la virtù della Pudicizia. L’originale si può ammirare presso la Cappella San Severo, quello scrigno carico di simboli labirintici che tra le altre cose ospita tutta la meraviglia del Cristo Velato.

Insomma, sta di fatto che da quel momento la mia guida della città è divenuta un po’ questa. Una guida che mi ha aiutata – sempre partendo dagli incontri, dal fascino dei luoghi e dai sapori del posto, oltre che dalla voglia di macinare chilometri a piedi – ad entrare meglio in sintonia con questa Napoli, città di magia e metamorfosi. Magia perché essa è sì insita in ogni città, ma soprattutto perché qui davvero è stata, attraverso i millenni, coltivata sotto varie forme. E metamorfosi perché nel corso dei secoli si è saputa evolvere, di dinastia in dinastia, dalle sirene a San Gennaro, da quel mago di Virgilio ai segreti che le sue cave di tufo ancora nascondono alla vista dei più (e che forse sono destinate a nascondere per sempre).

Ed è stato strano e insieme bello passare con le scarpe da ginnastica e la funicolare da un quartiere all’altro, entrando nella progressiva consapevolezza di mondi che si compenetrano, pur mantenendo caratteristiche proprie altamente distintive. “Siete stati al Santuario?”, ci è stato chiesto al Vomero nel tardo pomeriggio, quando con le borse sotto gli occhi di chi è in piedi dalle tre del mattino, ci siamo fermati a rimpinzare lo stomaco e il cuore. “Non ancora, ma abbiamo prenotato la visita al Cristo Velato per domattina.” Non ricordo se la replica è arrivata solo con un sorriso o proprio con una risata. Con Il Santuario, l’interlocutore intendeva tutt’altra cosa e felicemente abbiamo annuito dicendo di avere già visto Maradona ai Quartieri Spagnoli. Del resto, anche quella calcistica è una storia di fede che diventa mito, a cavallo della leggenda.

E il calcio per tutto il finesettimana ce l’avremmo avuto sotto gli occhi, volenti o nolenti. Bene specificare che in chi scrive e in chi l’accompagna, la fede calcistica vera, quella verace che ti morde dentro, non è praticamente mai pervenuta (se non in modo tanto sporadico da farmi pensare di essere troppo influenzabile quando si tratta di squadre per cui fare il tifo). Ma era impossibile non emozionarsi almeno un poco per questa squadra che, almeno fino alla domenica pomeriggio, sembrava destinata a portarsi a casa tutto, persino le scarpette degli avversari.

Noi camminavamo e la città si tingeva degli stessi colori del Brescia e del Monaco, ma con una gioia vistosa di festoni, gagliardetti, cartonati tale da farti sentire la comparsa di un unico lungo fondale. Eppure, non era una messinscena. Era desiderio autentico di vincere, di tornare a primeggiare. Di credere in un sogno che si avvera, sogno che si appoggia sulle memorie del proprio passato. E anche questo credo incarni la forza e il fascino di Napoli, città di magia e metamorfosi.

Da Partenope in poi, Napoli è una città in cui anche le favole danno il nome ai luoghi.”

“napoli magica”, di vittorio del tufo, p13

Camminando tra le vie tramutatesi in un unico stendardo bianco e azzurro, passeggiando tra i presepi di San Gregorio Armeno, fermandosi ad assaporare la pizza ai Tribunali, questa città mi è rimasta un po’ come la donna in copertina al libro. Carica di fascino, di mistero, pronta a svelare le sue bellezze e financo il suo volto soltanto dopo un percorso più o meno profondo tra le sue viscere. Lo confesso: non me la sono sentita di entrare nei meandri delle cavità sotterranee. Ma ho comunque fatto del mio meglio per provare ad entrare in risonanza con questa Napoli, città di magia e di metamorfosi. Ho guardato con occhi nuovi la statua del Nilo, pensando ai culti egizi probabilmente portati qui da un’antica colonia di Alessandrini. Mi sono chiesta che fine potesse aver fatto il famigerato tempio di Iside, al pari del corso del Fiume Sebeto.

E cedendo il passo ai fasti delle sale di Palazzo Reale davanti a Piazza del Plebiscito, inondata dal chiarore quasi palpabile della Galleria Umberto I, ho iniziato forse a intuire quanto difficile sia cogliere il cuore autentico di una città come questa. Perfino quando lo senti battere, non capisci da quale punto preciso del petto questo pulsare indomito si propaghi. Ma di tutte le stravaganti – e a tratti anche un po’ inquietanti – bellezze di questo percorso, una in particolare mi è rimasta impressa. Lo schema della Città ideale, dove la Y di Forcella assume risvolti pitagorici e punta alla perfezione. Un’altra, immensa meraviglia di questa Napoli, città di magia e metamorfosi. Un altro passaggio per il quale vale la pena citare Del Tufo:

Insomma, la struttura urbana di Neapolis […] è la sola a rispondere al modello di Vitruvio. Un’idea di perfezione urbanistica di cui dovremmo essere tutti orgogliosi, che rivive in quelli che ci ostiniamo a definire vicoli e vicarielli e che invece sono una testimonianza incredibile della straordinaria sapienza degli architetti e degli urbanisti del passato.”

napoli magica, vittorio del tufo, p25

Certo, si parla di una pianta molto antica e di cui non sempre oggi s’intuisce il tracciato. Eppure è presente. Forse velata, forse sepolta, ma in qualche modo ancora presente a sé stessa e a chi la vive. Una delle mie speranze nello scrivere è di tenere fede alla promessa fatta a pasticcieri, ristoratori e a tutti gli altri interlocutori di questo viaggio. “Ne parlerete bene di Napoli, quando sarete rientrata a casa? Lo direte che non siamo come nei film?”

Ci sto provando, a mio modo sto provando a raccontarlo. Provo cioè a salutare con affetto fiducioso quel desiderio, autentico e necessario, di voler andare oltre il luogo comune. Oltre la narrazione che, per varie ragioni, ha avuto maggiore fortuna. Contribuire nel grado infinitesimale a fare valere il sacrosanto diritto alla complessità. Nella vita, nei luoghi, nel modo in cui scegliamo d’intenderci e, pertanto, di viverci e raccontarci. Grazie Partenope. Grazie Napoli, città di magia e metamorfosi. Questa per me è stata la tua più grande lezione.

Pagine di pietra in Valle Camonica

Di pagine di pietra in Valle Camonica ce ne sono tante. Pagine scritte, riscritte, modificate nel corso dei secoli e dei millenni. Immense lavagne a cielo aperto solcate dall’erosione di pioggia, vento e ghiaccio. Luoghi su cui l’arte rupestre ha lasciato un segno profondo non solo con figure antropomorfe e rappresentazioni di animali e riti iniziatici. Ma anche con il dono della scrittura, quel solco profondo che ogni, qualvolta viene tracciato, ti porta a chiederti cosa sia Storia e che cosa ci fosse prima. Un solco protagonista del libro PAGINE DI PIETRA, di Alberto Marretta e Serena Solano.

Prima di tutto: non so bene dove suggerirvi di trovare questo libro se lo volete acquistare ora, ma so per certo che presso il sistema bibliotecario che mette in rete la Valle Camonica ne trovate almeno una copia. Altra cosa importante: la data di pubblicazione. Andiamo infatti indietro di quasi 10 anni (era il 2014) e un decennio è davvero un arco temporale tanto breve quanto lungo per smentire oppure confermare delle ipotesi in qualunque campo.

Quello che segue trae semplicemente spunto dal libro. L’articolo che state leggendo va preso per quello che è: il viaggio di curiosità di un’appassionata di miti e scrittura all’interno di un contesto geografico famigliare. Ho qui scelto di riprendere semplicemente alcuni aspetti del testo, accompagnandoli con delle riflessioni. Per amore del fatto che il libro non mi torni a fare la polvere sullo scaffale. Inoltre: mi sono appuntata solo ciò che mi ha colpita, sempre nell’ottica di mettere insieme i tasselli che più mi affascinano. Logico perciò pensare che molte cose interessanti mi siano sfuggite, che altrettante non ne abbia capite e che quanto state leggendo sia il sunto della lettura di una non addetta ai lavori.

Fatte le doverose premesse, confesso di avere deciso di scriverci sopra un pezzo perché avevo degli interrogativi più o meno di partenza. Di alcuni infatti ero già conscia, altri invece sono emersi proprio nel corso della lettura. Si tratta di temi ai quali mi sto scoprendo e riscoprendo legata. Quesiti cui spesso e volentieri non esiste una risposta precisa né, tantomeno, definitiva. Eccone alcuni: qual è la storia dell’antica scrittura della Valle Camonica? Esisteva un femminino sacro espresso, almeno in quest’ambito? Quali luoghi della valle conservano le testimonianze scrittorie più significative? Andiamo quindi al testo e alle informazioni che ho trovato preziose per provare a rispondere.

Il libro è scritto come andava scritto. La sensazione nel leggerlo è perciò quella di entrare tra le pagine di pietra in Valle Camonica insieme al modo di pensare di chi le studia. Un’operazione interessante, non sempre in tutto e per tutto semplice da seguire. C’è però da dire che i contributi dei vari capitoli aiutano a fornire una panoramica d’insieme, spesso anche molto dettagliata. Si tratta quindi di più paper specifici tutti legati principalmente da un luogo (Berzo Demo, dove da poco meno di un anno mi sono trasferita) e da un tema (la scrittura preromana dei nostri antenati camuni). Non restiamo però unicamente nel “trapassato”: verso la fine si trova anche un contributo molto interessante dal taglio più antropologico. Un aspetto che testimonia la necessità di adottare chiavi di lettura multidisciplinari per provare a comprendere un fenomeno tanto complesso quanto affascinante.

pagine di pietra in valle camonica

Fa bene sottolineare quanto l’ampiezza del corpus delle nostre iscrizioni incise sia davvero considerevole. E, di tutte quelle studiate o quantomeno catalogate fino alla pubblicazione di questo libro sulle pagine di pietra in Valle Camonica, sono due i luoghi che spiccano per abbondanza. Si tratta di Berzo Demo (loc. Loa, cui il testo è in buona parte dedicato) e Piancogno (salendo dall’abitato verso l’Annunciata). Al primo dei due luoghi sono legata per amore e scelte di vita, al secondo per discendenza da parte di madre (o meglio: di bisnonna materna). Questi ovviamente sono riferimenti personali che mi hanno fatto da briciole di Pollicino nella lettura. Li colloco nella sfera delle coincidenze con cui la nostra vita è intessuta.

Berzo Demo e Piancogno. Loa e l’Annunciata quindi. Due affacci sul fondovalle, due luoghi sotto diversi aspetti simili che, da quanto si evince, conservano stratificazioni di culto lunghe millenni. E, a proposito di culti, viene da sottolineare due questioni fondamentali: la difficoltà d’identificarli in modo univoco, per via della progressiva stratificazione. E la presenza per un periodo di tempo lunghissimo di più forme di culto praticate in contemporanea (alla faccia della linearità del tempo). Culti in cui l’antenato e il dio non erano poi forse troppo distanti l’uno dall’altro.

E qui entriamo in un tema tanto delicato quanto affascinante. Quello del ruolo dell’immaginario collettivo, della capacità di ritrarre un mondo ideale, forse più che reale. Un altro degli aspetti legati alle incisioni rupestri (in generale, non per forza solo alle iscrizioni in alfabeto) che mi hanno profondamente colpita. La reiterazione del cervo, la rievocazione forse anche dei propri miti fondativi. E la rosa camuna, probabile associazione al Sole e al contesto dell’iniziazione femminile. Questione che si fa ancora più interessante quando alcune raffigurazioni vengono coperte, anche solo parzialmente, da altre. Damnatio memoriae? E se sì, per quale ragione?

“L’arte rupestre non sarebbe la semplice raffigurazione di momenti del quotidiano ma piuttosto la continua rinascita di un mondo ideale, all’interno del quale sussisterebbero poteri e mezzi sovrannaturali in grado di investire sia l’essere umano che la sfera animale.”

pagina 55

A proposito di simboli… Incisioni di scrittura e incisioni di coltelli si scoprono essere spesso in relazione le une con le altre. Forse un’indicazione di status sociale, probabilmente un chiaro riferimento ad un mondo fortemente al maschile. Del resto, la scrittura era altrettanto probabilmente ad appannaggio di caste elevate. Elemento di prestigio che rientrava nella (o dava accesso alla?) sfera del sacro. Un sacro che, prima dell’arrivo dell’alfabeto latino e spesso anche in modo coevo, si basa su lettere vicine al nord-etrusco. Lettere che era necessario imparare a scrivere, a maneggiare con destrezza. E, alcune rocce in particolare, si prestavano particolarmente bene per esercitarsi in quelli che ora ricordano dei grandi quaderni a righe.

Scrivere, scrivere e ancora scrivere. Probabilmente con un’intensità maggiore rispetto a quanto avveniva nelle vallate limitrofe. Almeno, così lascia supporre la relativa abbondanza di materiale ritrovato in Valle Camonica. All’epoca della pubblicazione del testo (anno 2014), si era arrivati a contare circa 300 attestazioni di iscrizioni preromane in zona. La stragrande maggioranza su roccia. Da qui allo stabilire con certezza quando si sia iniziato a scrivere, è tutto un altro paio di maniche. In generale però, pare ci sia stata una maggiore diffusione delle iscrizioni nella tarda Età del Ferro. Un fenomeno che è andato accentuandosi in parallelo alla Romanizzazione del territorio, sancita in modo per così dire “definito” nel 16 avanti Cristo.

pagine di pietra in valle camonica

E qui chiudo queste pagine di pietra in Valle Camonica. Lo faccio per provare ad interrogarmi di nuovo sul punto di partenza, sui quesiti che ho trovato disseminati lungo il percorso. Di questo femminino sacro, almeno nella nostra antica scrittura, non mi pare di avere scorto traccia. Mi sembra invece evidente come le tradizioni (del folklore locale e della religiosità dei luoghi) abbiano in qualche modo conservato la presenza del principio femminile. L’Annunciata è del, resto, legata al culto della Vergine. Vergine profondamente onorata anche nelle feste di Berzo Demo. Se poi prendo spunto da uno degli ultimi capitoli, quello dal piglio antropologico, mi viene da soffermarmi sui racconti in cui le streghe non sempre e non per forza vengono dipinte come entità assolutamente malvagie. Al contrario, talvolta nelle leggende locali venivano in aiuto delle famiglie bisognose.

Confesso che da un lato mi spiace – per non dire che “mi scoccia” proprio – individuare ancora una volta la scrittura come sì un atto sacro, ma ad appannaggio della classe maschile. Chissà, forse al momento del suo arrivo in zona, la valenza profonda del matriarcale e dell’equilibrio tra i due principi si era già perduta. Forse invece non c’era mai davvero stata. Oppure forse, chissà… magari sono valori che ritroveremo soltanto scavando più a fondo. Tra le nostre rocce, e soprattutto, in ciò che resta della nostra memoria collettiva.

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