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Il Circolo delle Donne Farfalla

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La permanenza del tatuaggio e l’impermanenza della farfalla. Unire i due aspetti è una cosa che fanno in molti: caviglie, polpacci, polsi, spalle, scapole. Leggere “Il Circolo delle Donne Farfalla”, romanzo di Fiori Picco, mi è stato utile per creare mentalmente un nuovo tipo di legame tra questi due elementi. E qui entra in gioco l’Antropologia.  

Ho incontrato l’autrice al Festival dell’Oriente di Brescia l’ultimo fine settimana di febbraio 2023. Il portamento esile, il viso minuto, la voce quasi flebile davano l’impressione di un essere in lieve contrasto con la confusione del momento. Alle fiere c’è sempre un po’ di confusione. Soprattutto quando i sensi sono rapiti in simultanea da nuvole d’incenso e dalla risonanza che si crea tra le campane tibetane. Ho dato un occhio veloce ai libri e ho colto l’invito alla presentazione dell’ultimo. I volti di quattro donne sembravano contorcersi sullo sfondo azzurrato della copertina. Era una storia che mi andava di ascoltare, ma non sapevo come si sarebbe evoluta la giornata.  

E poi, come spesso mi accade, ci sono capitata. Un po’ l’ho cercata, un po’ ci sono incappata. Forse l’autrice si ricorda di me come di quella che ha cercato di collegare i cavi del proiettore senza ottenere grandi risultati. Speravo di poter dare una mano. Anche per sentirmi parte di una presentazione letteraria sulla Cina, un mondo che un tempo studiavo. L’Asia ha avuto molti modi per chiamarmi. Questo libro l’ha fatto con la stessa delicatezza dell’autrice: con un taglio semplice e diretto. Con una narrazione che mi ha sorpresa non tanto per la storia in sé, quanto per il tema che affronta. Se non avete letto il libro, da qui in poi potreste trovare un po’ di spoiler, pensateci bene prima di proseguire.  

Quando parlavo sopra del legame tra il tratto indelebile dell’inchiostro e la leggerezza impermanente della farfalla, stavo pensando ai visi di quelle quattro donne. Quelle in copertina a “Il Circolo delle Donne Farfalla”. Che, pur non essendo le protagoniste del libro, in qualche modo lo diventano. Personaggi loro malgrado di una storia vera e anche molto triste. Quella di una lontana provincia cinese confinante con il Tibet, dove le donne dovevano subire un tatuaggio sul volto per motivi di protezione. Spirituale, come si capisce dai primi capitoli. Ma anche materiale, come si evince più avanti.  

Un tatuaggio costituisce un marchio indelebile. Averne uno sul viso vuol dire accompagnare i propri anni con un riflesso quotidiano nel quale non ci si riconosce più. Dove è necessario andare oltre le linee del disegno d’inchiostro per ritrovare le sembianze dei propri lineamenti. E si finisce per il confondersi con il corpo affusolato e le grandi ali di una terribile farfalla. Eppure, in alcuni momenti della Storia, il genere umano ha scelto – e spesso imposto – la deturpazione come corazza. Una forma di protezione austera e inflessibile, immutabile se non per l’incalzare del tempo, che alle tracce d’inchiostro aggiunge le rughe dell’animo.  

Non voglio soffermarmi troppo sulla storia – una ragazza che cerca sé stessa andando lontano – né entrare nel dettaglio delle usanze locali (sarebbe davvero troppo spoiler). Anche perché, ciò che davvero mi ha affascinata del libro non è stato lo stile narrativo, né la scoperta specifica di questo popolo. È stata la presa di coscienza di quel meccanismo che, per giustificare un atto difficile e dalle conseguenze immutabili, sceglie di entrare nella sfera del sacro. È strano pensare a come la necessità della salvezza terrena si possa legare indissolubilmente alla promessa della salvezza spirituale.  

Una sorta di “far di necessità virtù” che possiamo trovare, attraverso i secoli e nelle forme più svariate, in diverse aree del globo. Protagonista, ancora una volta, è la donna. La donna che infligge, la donna che subisce. Come non pensare ad altre pratiche rischiose quali l’infibulazione? Pratiche per le quali è sempre pronta una giustificazione. Ma, come in tutte le cose quando si parla di cultura, è necessario procedere con guanti protettivi e dei bei piedi di piombo.  

“Il Circolo delle Donne Farfalla” mi ha fatto venire in mente anche un’altra usanza, in passato molto diffusa. Quella di isolare la donna durante il periodo del sangue mensile. Molti studiosi ritengono si trattasse non tanto di una forma di allontanamento per dettami di impurezza religiosa. Anzi. Tale impurezza potrebbe essere insorta in un secondo momento, a forma di tutela verso una donna indebolita dalle mestruazioni e, pertanto, bisognosa di maggiore riposo e introspezione. Una credenza estraniante giustificabile con un’originaria ricerca di protezione, quindi.  

Eppure, quando un atto discriminatorio si compie, inevitabilmente esso si trasforma in sopruso. Sia che venga praticato con l’ostracismo sociale, con il rasoio, che con dell’inchiostro. Quanto è giustificabile sulla base delle necessità concrete di protezione? Quando invece è destinato a diventare una forma di prigione dalla quale la donna raramente può fuggire?  

Credo che nessuno sano di mente nel nostro Occidente contemporaneo vorrebbe sottoporre una ragazzina ad un supplizio feroce come quello di tatuarle sul volto un’orrenda farfalla. Nemmeno con la promessa che questa la condurrà un giorno sana e salva verso il regno degli spiriti. Infatti, “Il Circolo delle Donne Farfalla” racconta la storia di una terra lontana. Forse già questo rappresenta l’indizio per una chiave di lettura.  

Per comprendere se esistono delle ragioni che vanno oltre la superstizione o la discriminazione – e non è detto che ci siano – bisogna guardare più da vicino. È necessario osservare nel dettaglio i volti di quelle donne. Perdersi tra le chiazze scure lasciate dall’inchiostro. E da lì, risalire alla mano che si è presa la briga d’infliggere tanto dolore. Bisogna addentrarsi, immergersi in quell’inchiostro. Altrimenti continueremo a vedere solo delle donne deturpate, oppure dei soggetti affascinanti degni di figurare su delle riviste di Antropologia. Serve provare a cercare tutti i protagonisti della vicenda, raccogliendo le loro storie personali e le altrettante storie che questi hanno da raccontare. Ascoltare ogni ragione per dipanare il bandolo della matassa. Ammesso e non concesso che questa matassa poi ci appartenga o competa davvero.  

Certo, il risultato resterà comunque terribile. Ma forse smetteremo di etichettare queste donne unicamente come vittime di un’usanza barbara e incivile. Accoglieremo, e poi eventualmente respingeremo, la possibilità che si sia trattato di un rito dalle valenze sciamaniche di protezione.  

Penso che valga sia per le donne con il tatuaggio della farfalla che troviamo nel libro di Fiori, che per molte altre situazioni. Ed è per questo che ho apprezzato il libro. Perché la giovane protagonista parte con un’idea ben salda e si lascia guidare dalla curiosità, dalla voglia di saperne di più, dalla sete di comprendere. O, almeno, di provarci. Comprendere cosa significhi vivere con una mutilazione e farci i conti ogni giorno. Comprendere il valore che la donna a cui è stata inflitta attribuisce a tale mutilazione. Leggere i caratteri salienti della sua cultura e come questi sono mutati nel tempo. Approfondire le motivazioni sociali e materiali alla base dell’imposizione.  

Forse allora il marchio imposto assumerà nuovi contorni, un’altra sfumatura. Non smetterà di essere terribile, profondamente ingiusto. Questo no. Ma ci fornirà, suo malgrado, gli strumenti per comprendere l’origine di una credenza. Soltanto allora, se di nostra competenza, saremo eventualmente autorizzati a scalfirla, preservarla, eluderla, rimpiazzarla, oppure… estirparla per sempre.

Tappeti di melograno

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Le circostanze della nostra vita a volte sono collegate tra loro da un filo rosso. Altre volte, da un cordone. È un rosso cordone simbolico a collegare i tappeti esposti al Castello di Brescia. Appartengono alla collezione Zaleski di Fondazione Tassara e sono gratuitamente accessibili al pubblico in occasione di Brescia e Bergamo Capitali della cultura 2023. Il filo rosso di questa storia passa attraverso il Turkestan. Si srotola accarezzando i confini interni di una regione molto vasta, antica e a lungo oggetto degli intrecci della Via della Seta. Luoghi carichi di vissuto, trama, ordito e lunghissime tradizioni di artigianato locale che si riannodano a correnti religiose e civiltà oramai scomparse.

Il Turkestan culturale in sé è di difficile definizione. Una realtà più storica che geografica, più identitaria che chiaramente tratteggiabile su una mappa. Tant’è che, osservando la cartina e andando a tentoni lungo le rotte carovaniere dell’Asia centrale, tra gli Stati che ora colmano gli spazi di questa grande regione dovremmo riconoscere anche l’Armenia. Quell’Armenia che da terra che lambiva i tre mari si è poi tramutata in millet dell’Impero ottomano, in Repubblica sovietica prima e – ora – in Paese alla ricerca di una propria sicurezza territoriale. Certezze che il ritorno brusco e aggressivo della Geopolitica post 1989 hanno messo duramente in crisi. Ma torniamo ai tappeti e al nostro famoso filo rosso, che sembra intrecciarli tra loro insieme a creazioni tessili di artisti come Alighiero Boetti e Herta Ottolenghi Wedekin, proiezioni multimediali e installazioni di arte contemporanea a cura di LETIA-Letizia Cariello.

Ho visitato l’esposizione in un afoso pomeriggio di agosto. L’intera città sembrava essersi fermata, un po’ per la calura estiva, un po’ per la settimana dell’Assunta. Camminare tra tappeti di lana (ma anche seta, fili d’argento e d’oro) rafforza il senso di mancanza d’aria. Ma la bellezza si sa, ha il potere di rinvigorire anche i sensi più duramente colpiti dal caldo. Ed è in questa bellezza che ho ripensato appunto all’Armenia, la grande assente di questo percorso tra i tappeti turkmeni. Una terra lontana cui mi legano un viaggio molto recente e una serie di letture che ho fatto per colmare le lacune sulla sua storia, la sua cultura. Un’operazione complessa che temo si protrarrà con il tempo, in quanto sto considerando di tornare in Asia centrale. Ma un’operazione al contempo necessaria, che ha portato alla luce della mia ignoranza tutta una serie di informazioni legate proprio ai tappeti.

Quando sono stata a Yerevan, il mese scorso, purtroppo non ho avuto il tempo di ammirare quest’incredibile prodotto dell’artigianato locale. Ho visitato il vernissage, il mercato all’aperto nel cuore della capitale. Ma i tappeti li ho solo adocchiati, distratta com’ero da quella sensazione d’urgenza data dalla foga di cercare dei souvenir quando il tempo scarseggia. In sintesi, i tappeti li ho solo intravisti da lontano, conscia di non potermi soffermare anche su quella meraviglia. Avevo però sentito degli accenni alla maestria di chi li produce e alla bellezza dei loro motivi.

È stato rientrando a casa che ho preso in mano degli articoli di approfondimento. Spulciandoli, è emerso quanto questa tradizione faccia parte del sostrato culturale e storico del popolo armeno. In maniera così profonda che c’è chi osa affermare che l’esportazione dei tappeti locali coincida con il massimo contributo culturale-artistico dato dall’Armenia al mondo. Mi sono tornate in mente altre letture, in cui il tappeto viene visto come elemento di tessitura che connette madre e figlia, o comunque che è di pertinenza prettamente femminile. Secondo alcuni, un retaggio di antiche culture antecedenti le religioni del Libro.

Per chi vive in zone aride, il tappeto è la terra su cui decidi di costruire la tua dimora ogni volta che pianti la tenda. Per altri è il riferimento sacro, il terreno di appartenenza spirituale sul quale prostrarsi per conservare la fede. A tale proposito, c’è chi ipotizza che l’attaccamento dei musulmani all’utilizzo del tappeto sia d’ispirazione armena. Volendo scavare quindi, la tradizione armena dell’intrecciar tappeti pare essere di talmente alto rilievo dall’avere plasmato il senso dei popoli limitrofi riguardo a questa suppellettile. Per questo nella collezione esposta mi aspettavo di trovare almeno un tappeto che provenisse da questa preziosa terra.

Invece no, né in castello né nel ridotto del Teatro Grande di Brescia, dove l’esposizione prosegue in un’altra mostra con i tappeti adibiti alla preghiera. Ma forse, più che leggerla come una mancanza, va vista come una conferma. Ciò che è di fatto assente, immagino sia presente altrove. In quella parte cioè della collezione privata che non è stata esposta. Ma soprattutto, nell’origine silenziosa del processo di tradizione e tessitura che si dispiega sotto gli occhi del visitatore.

In castello si segue un lungo cordone rosso che segna il percorso da seguire. Un’installazione a sua volta artistica che consente di osservare i tappeti da vicino senza essere costretti a passarci sotto. In teatro invece, i tappeti sono appesi alle logge su due livelli, creando giochi simmetrici e d’integrazione-contrasto con il contesto architettonico. Rossi, blu, tinte panna, verdi si alternano seguendo motivi geometrici. Sono raffigurazioni stilizzate, tra le quali non fatichiamo a riconoscere il simbolo solare della svastica, lanterne stilizzate, rose, uccelli, motivi a corna d’ariete, animali fantastici, anfore (simbolo anch’esso femminile), addirittura un paio di splendide farfalle.

Ma soprattutto, in questo gioco di simmetrie schematiche e nodi che azzardano qualche libertà in più c’è il vero protagonista di questa narrazione di lana e seta: il melograno. Una presenza talmente forte da diventare una costante. Il melograno è simbolo dell’Iran, oltre che dell’Armenia. Un elemento identitario così forte per i popoli dell’Asia centrale che non c’è da stupirsi se è presente anche nella cultura cristiana, per non parlare di quella cinese. È il frutto dell’abbondanza, del sacrificio, del martirio, della fertilità che nasce e rinasce dal donarsi in modo completo. Per non parlare di ciò che ha rappresentato per la giovane Persefone e il suo soggiorno nell’Ade. Un simbolo forte e bellissimo la cui carica si sprigiona su più livelli. E la stanza del castello adibita ad ospitare quel ramo della collezione ad un certo punto potrebbe davvero ricordare un giardino, come il titolo stesso dell’esposizione suggerisce.

Un Eden fatto di simboli intrecciati a mano, con pezzi che ripercorrono i secoli e le varie tappe dell’antica Via della Seta. Khotan, Buchara, Samarcanda. Il Belucistan, l’Azerbaijan, il Daghestan, il Kurdistan, lo Xinjiang. Un’area vastissima accomunata – tra le altre cose – da un artigianato capace di smuovere gli animi di mercanti e ricchi acquirenti. I tappeti di queste terre, qualsiasi sia l’uso al quale fossero un tempo adibiti, conservano un intreccio di mondi. Il melograno ne è appunto il protagonista. Ma dubito di avere le competenze necessarie a cogliere tutti i risvolti di questa narrazione di filati.

Se torno con la mente alle letture sull’Armenia, ricordo un passaggio in cui si faceva riferimento al simbolismo presente proprio nei tappeti. Simboli ovviamente stilizzati e tanto bellamente camuffati da riuscire a passare per “innocui” agli occhi di osservatori esterni o, e questo era il motivo della copertura, appartenenti a culti diversi. Soltanto gli iniziati che avevano ricevuto una formazione in merito erano davvero in grado di decifrarne i mille risvolti. Di leggerne il messaggio per intero.

Esistono diversi modi di approcciarsi a un prodotto artigianale come un tappeto. Uno di questi è forse quello più semplice e potente, capace cioè di catturare l’attenzione di tutti, anche di quanti non hanno un occhio avvezzo a letture di carattere artistico o antropologico. Questo “modo” è dettato dalla bellezza. E di bellezza ne ho trovata molta passeggiando tra i tappeti del Turkestan esposti in castello e in teatro a Brescia. Un motivo per il quale mi sento riconoscente verso chi si è prodigato nel metterli a disposizione del mio sguardo, così come dello sguardo di tutti i visitatori che, a vario titolo e attratti dal motore della curiosità, ne stanno scoprendo le trame.

Trame che raccontano della vita, sia essa quella ideale-idealizzata dei popoli che li hanno creati, oppure della vita intesa come quotidiano reale dei giorni trascorsi. Di sicuro quella che si legge tra un nodo di seta e l’altro è una narrazione antica, coerente e molto potente. Una narrazione che è bello immaginare prosegua anche al di fuori degli spazi adibiti alle due mostre. Soprattutto quando a pochi passi dall’ingresso di una di esse si erge un meraviglioso albero. Non sarà certo l’Axis mundi – l’Albero della vita – ma è a parimerito carico di fronde, foglie e – meraviglia! – di tanti frutti che si avviano alla maturazione. Sono anch’essi melograni, ancora un po’ acerbi ma eternamente meravigliosi.

I NODI DEI GIARDINI DEL PARADISO

Castello di Brescia

primo aprile – 5 novembre 2023

INTRECCI A TEATRO

Ridotto del Teatro Grande, Brescia

17 luglio – 29 ottobre 2023

Fondazione Tassara

Fondazione Brescia Musei

Fondazione Teatro Grande di Brescia

NIVES MEROI e la misura del necessario

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Camicia a quadri, capello corto, scarpe comode. Nives Meroi sul palco è una presenza leggera. Nomen omen: le nevi con cui l’hanno battezzata sono una coltre soffice e silenziosa, capace di ottundere ogni tentativo egoico. Un’eccezione nel mondo dell’alpinismo, ambiente spesso ancora definito con termini belligeranti, provenienti da un lessico fortemente maschile e mascolino. La sua leggerezza sa di umiltà, bucato appena fatto, spazzatura portata fuori ogni mercoledì sera. L’atteggiamento semplice e pulito trasmette una vita altrettanto semplice, ordinata e ordinaria. Di primo acchito, forse non lo diresti che questa donna ha scalato tutti i 14 ottomila del pianeta.  

L’ultimo, l’Annapurna, è il protagonista del video che commenta lei stessa durante la serata del Sentiero invisibile, il 18 agosto a Ponte di Legno (BS). Legge commenti, speranze e momenti di pura bellezza tratti dal suo stesso libro: “Il volo del corvo timido”. Sembra di sentire una professoressa del liceo. Una di quelle buone, che non darebbero mai una nota per cattiva condotta e che allo stesso tempo richiedono (e spontaneamente ottengono) un atteggiamento di rigore, disciplina.  

Forse restiamo stupiti da questo apparente contrasto tra una femminilità semplice e schietta, priva di fronzoli e orpelli, e la extra-ordinarietà delle gesta perché, in fondo, a una figura di questo calibro ancora non siamo abituati. Ci mancano i precedenti, oppure ce li siamo persi per strada. Chi segue un po’ l’alpinismo e le sue vette mediatiche è solito essere a sua volta vittima di un pregiudizio. Quello che tende a dividere il mondo della montagna tra i conquistatori di cime e gli altruisti dell’altitudine. In pratica, tra chi venderebbe anche la madre pur di arrivare in cresta – in quota come in società – e chi si prodiga talmente per il prossimo da risultare in odor di santità. Due estremi opposti della stessa scala di grigi, due modi agli antipodi che adottiamo per definire l’eroe dei nostri tempi.  

Insomma, senza volerne fare una lettura femminista, a volte nell’immaginario comune gli alpinisti risultano un po’ come la percezione che si ha delle donne: o prostitute, o suore. Le vie di mezzo spesso non le conosciamo quando si tratta di esprimere un giudizio. La realtà però, è ben diversa. È fatta di grigi, di persone che sfuggono alle categorie. Una realtà che esce dai nostri schemi mentali e che quindi spesso non siamo pronti a raccontare. Eppure, basterebbe osservare con maggior attenzione questa benedetta gradazione per accorgerci dell’esistenza di altri valori cromatici. Questa camicia a quadri sembra esserne la chiara, tangibile prova.  

Ha scalato tutti gli ottomila della Terra. Tutti, con il marito (Romano Benet), che a differenza di altre interviste, durante la serata resta in seconda linea. Anzi: in prima fila, da supporto e contraltare silenzioso di fronte alle battute di Nives. Nives, la donna che senza gridare o imporsi se non sulle proprie forze, è diventata un mito. Un esempio di fermezza gentile, di composta caparbietà. La goccia che scava la pietra. La riprova che, quando la passione è autentica, ti può davvero portare in alto, senza bisogno di sgomitare o fare a pugni. Purché ovviamente tu sappia restare fedele a te stessa, coltivando la consapevolezza di chi sei e di cosa desideri. Il resto è allenamento, il resto è storia.  

Eppure, in una collana di perle come quella delle tante cime raggiunte, bisogna tener conto anche delle sconfitte. “Cos’è per te il fallimento?”, le chiede Nadia Busato, giornalista e scrittrice. Fallimento non è solo una delle parole attraverso le quali si compie il periplo dell’intervista. Fallimento è il crepaccio che tutti prima o poi siamo chiamati ad affrontare nelle nostre vite. Vite che, come ricorda Nives, sono date dalla somma di tutti i nostri successi, così come di tutti i nostri fallimenti. Nella nostra società fallire sembra una cosa immonda, qualcosa della cui esistenza non ci capacitiamo. Eppure, soltanto fallendo ci scopriamo più umili. E, forse, capiamo davvero le nostre priorità.  

Come quella volta in cui, durante l’ascesa, il marito ha un malore. Lei ha le forze, forse una parte la sprona a continuare a salire, a raggiungere il suo traguardo. Ma il buonsenso prevale, inducendola a ridiscendere subito con lui. Una scelta d’amore che si rivela provvidenziale per prendere in tempo la malattia di Romano e iniziare la terapia. Storie di coppia come tante, se non fosse che si sta sospesi in cima al mondo e si è fatta tanta fatica inseguendo un sogno. Bisogna essere capaci di vedere la realtà per quella che è. Di fare silenzio, osservare, comprendere e agire secondo coscienza.  

Probabilmente è anche per questo che Nives e Romano sono una coppia tanto affiatata. Battibeccano, certo. Come tutte le coppie. Anche quella volta in cima all’Annapurna, quando ognuno dei due era convinto d’avere individuato il cucuzzolo più alto. “Come sempre, aveva ragione lui.” Ammette lei scrutandolo tra il pubblico. Non sono abbastanza vicina per cogliere lo sguardo, per capire quanto punzecchiarsi ancora implichi questa duratura complicità che da decenni li unisce. Da ragazzi, mentre inaugurano il sodalizio delle rispettive passioni per l’arrampicata. Da fidanzati, quando scelgono di sposarsi per sommare le due settimane di ferie all’anno al congedo per le nozze, riuscendo a guadagnarsi un mese di alpinismo in Sudamerica. E per tutto l’immenso tempo del matrimonio, in cui ogni attimo rubato a famiglia, lavoro, casa, impegni, fare la spesa, pagare le bollette diventa una fuga verso la libertà del prossimo viaggio. Della prossima meta.  

La risalita dell’Annapurna, un ottomila a detta sua “basso ma pericoloso, tanto che si tende a lasciarlo per ultimo” risale al 2017. Sono anni in cui la montagna è già stata assalita da quell’alpinismo mordi e fuggi del quale ancora la regione è vittima. Bombole d’ossigeno, portatori sherpa spesso maltrattati, elicotteri che vanno e vengono e trasportano subito in quota chi se lo può permettere. Ma che gusto c’è? La Dea dell’Abbondanza, “colei che dà cibo e nutrimento” come dicono i Nepalesi, lascia che in molti le solletichino i fianchi. È però consapevole di come non tutti siano degni di vivere appieno l’esperienza.  

Dalle parole di Nives, sembra che sia la montagna a decidere come e se lasciarti salire. Il resto si consuma nella pazienza dell’attesa di chi sceglie di prendersi il giusto tempo per acclimatarsi. Per liberare la mente dai suoi fantasmi e imparare ad ascoltare i messaggi del proprio corpo. Fare silenzio, contare 30 passi, spegnere la frontale e lasciare che il cono di luce davanti a sé venga inghiottito dal buio. È bene, è sano, è espressione di quella misura del necessario di cui donne come Nives sono divenute portavoce. Solo così si può cominciare ad ammirare qualcosa di nuovo ed eterno. Solo allora, sotto ai propri piedi, prende forma quell’immensa scala di stelle che accende e dissolve la grande notte himalayana.          

il nostro addio al freddo, dal blog di Sandra Simonetti

Il nostro addio al freddo

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Nelle ultime settimane mi sono capitati sotto le mani un libro e un progetto. Tutti e due hanno a che fare con il cambiamento climatico e con il nostro addio al freddo. Un processo lento ma inesorabile, che fa strizzare il cuore agli amanti dello sci e i glutei a chi lavora nella filiera. Da perenne freddolosa, l’arrivo della bella stagione mi riempie di gioia, ma quest’anno più dei precedenti è una gioia lasciata a metà, un bicchiere di spensieratezza che resta incompiuto. Mi è mancata la neve, ci è mancata la neve. Il candido profilo dei monti quando si ricoprono di zucchero filato e sai che sarà acqua buona da mettere via per la tua torrida estate.

Vivendo con un appassionato di montagna, per me è diventato normale parlare di questi argomenti, anche se, da qualche tempo, mi fanno sentire piccola, impossibilitata a cambiare le cose. Eppure, voglio credere che si possa ancora invertire rotta, cominciando dalla consapevolezza. Come sempre poi la vita ti porta ad un incrocio di incontri e di coincidenze che coincidenze mai sono. E infatti nel giro di pochi giorni mi è arrivato a casa un libro e mi sono sentita raccontare un progetto. Il primo parla di economie invernali che si fanno liquide, in alcuni casi addirittura sublimando. Il secondo è la ricerca scientifico-artistica sul verso che fa un ghiacciaio quando muore: Un suono in estinzione.

Sì, lo so: non sono argomenti per deboli di cuore. Ma in qualche modo ci dovremo pur preparare se vogliamo evitare di dare il nostro addio al freddo in maniera definitiva. Cominciamo allora dalle pagine e poi passiamo ai suoni. Se possibile, con leggerezza e brevità. A proposito di brevità: quando è uscito il pezzo sui libri per donne in risveglio, uno dei commenti migliori che ho ricevuto riguardava proprio il fatto che sembra sempre mi blocchi ad un certo punto dell’approfondimento. Mi rende felice la richiesta implicita di raccontare di più, di scavare di più, di perseverare in questo carotaggio profondo di parole. Namasté. Da meditatrice distratta metterò in pratica, ma non ora.

Per il nostro addio al freddo partiamo allora dal libro Inverno liquido, di Maurizio Dematteis e Michele Nardelli. Per chi non li conoscesse (io rientravo in questa candida schiera), Dematteis è giornalista, ricercatore e scrittore con un focus specifico su territori alpini, questioni ambientali e sociale. Nardelli invece è autore, formatore e saggista con esperienza pregressa – da quanto ho capito – nel campo di territori, sicurezza e diritti. Hanno due penne diverse, due stili capaci di affrontare la liquefazione dell’inverno con due approcci che, potremmo dire, si compenetrano.

Una delle cose che più ho apprezzato di Inverno liquido è la sua capacità di fare il giro dell’Italia raccontando i luoghi e le esperienze che li contraddistinguono. A fine lettura, la mia speranza è che gli autori siano davvero capaci di portare avanti l’intento dichiarato più volte: dare vita a un vero e proprio collettivo di scrittura. Una realtà viva e in grado di ravvivarsi, di accendersi di nuove testimonianze, analisi ed intenzioni comunitarie. Rielaboro gli appunti segnati sul testo con il sottofondo del suono che fa il Ghiacciaio dell’Adamello. Una collezione di registrazioni in parte fruibili su SoundCloud. Voglio sentire la voce del ghiaccio che rischiamo di perdere per sempre.

un suono in estinzione

Uno dei concetti cari ai due autori di Inverno liquido è il limite. Un valore che, nel corso del tempo, abbiamo imparato a vedere con un’accezione negativa. Il limite, per l’uomo del Positivismo, è quell’ostacolo da superare. Anche il linguaggio comune si è riempito di espressioni figlie di una generazione che puntava, con convinzione e fede cieca nel progresso, proprio all’impossibile. È giunta l’ora di disimparare. Va invece ritrovato il senso dell’unico, dell’artigianale, dell’irripetibile. Tutti elementi che hanno in comune un aspetto chiave per la nostra salvezza come specie: il rispetto.

In questo caso parliamo di rispetto verso la montagna, ma potremmo tranquillamente prendere spunto per estenderlo ad altre sfere della nostra vita, o della nostra società-cultura. Nel libro abbondano i casi negativi, quelli di cui è bene prendere coscienza per distaccarcene e cercare valide alternative. Proprio su queste alternative si concentrano alcune interviste ed analisi. Progetti piccoli, medi e grandi. Idee che puntano a ritrovare una montagna da vivere sempre, a prescindere dall’andamento dell’inverno. Un mondo in quota che è prima di tutto frutto del lavoro delle comunità che lo abitano e che, giorno per giorno, sono chiamate a farsi nuovamente carico della responsabilità di plasmarlo avendone cura. Una delle lezioni comuni che possiamo trarre dalle buone prassi citate è la capacità di dedicarsi di nuovo alla “pluriattività”.

Si tratta infatti di attuare un cambiamento di rotta in grado di uscire da un’ottica fordista e dalla relativa “monocultura”. Un aspetto necessario anche perché il limite, che tanto abbiamo cercato di evitare, ha assunto una configurazione meteorologica e non solo. Ormai è infatti chiaro che sotto i 2.000 metri di altitudine non resterà nulla. Stiamo parlando delle stazioni sciistiche, il fulcro attorno al quale il materiale di questo libro si addensa. Da non praticante di questo sport, i numeri mi fanno ancora più impressione. Da libera professionista che crede nelle fonti di reddito e di indotto, le cifre mi lasciano sgomenta. Stiamo per dire addio a gran parte della stagione turistica invernale (e, più in generale, montana) per come l’abbiamo conosciuta. I suoni – o rumori? – che mi rimanda SoundCloud nel frattempo mi catturano, incuriosiscono. Si tratta di una lingua che non riesco a decifrare.

inverno liquido

Si tratta di un organismo vivente da tempo in uno stato prolungato di convalescenza, per non dire di agonia. Che atteggiamento siamo chiamati ad assumere nei suoi confronti? Nel pezzo precedente parlavo di risveglio femminile, di femminino sacro. Credo che vada aggiunta una componente chiave, che trascende il concetto di genere: per risvegliarsi, serve abbracciare la responsabilità di chi si è davvero e di come portare la propria individualità nel vasto mondo. Possibilmente cominciando dal piccolo e quindi proprio dall’ambiente che ci circonda. Nel caso di chi vive in Valle Camonica – come in molte altre vallate dell’arco alpino – è questione di aprire occhi e orecchie sulla montagna e sulla progressiva carenza di freddo-neve-inverno. Si tratta di credere ed investire in un nuovo turismo non solo esperienziale, ma anche relazionale, dove l’ospitalità diffusa diviene prassi consolidata. Dove si esce dal concetto vetusto di divertimentificio.

Riprendo di seguito alcuni passaggi del libro che ben si collegano al progetto Un suono in estinzione:

  • p61 “la clientela futura della montagna non sarà più quella dello sci ma gente che viaggia, che vuole dormire e mangiare bene, che un domani verrà sul Cervino per vedere il ghiacciaio morente e l’agonia diventerà anch’essa un’attrazione.”
  • p98 “Il vicino ghiacciaio dell’Adamello in trentatré anni ha perso una superficie di quattro chilometri quadrati, pari a 570 campi da calcio.”
  • p124 “Sappiamo che i ghiacciai delle Alpi hanno ormai il tempo contato.”

Dobbiamo smettere di concepire la montagna come un continuum della città. Dobbiamo smettere di drogare un’economia già morente con ingenti iniezioni di denaro pubblico. Denaro che, se comunque presente, potrebbe venire investito in modo ben diverso dal pompare inutilmente le stazioni dei comprensori sciistici sotto i 2.000 metri, puntando invece a progetti che credono nella diversificazione. Supportando le piccole attività che desiderano mettersi in rete. Educando e coinvolgendo il turista in una fruizione davvero autentica e davvero sostenibile. E, dove non è possibile riutilizzare impianti arrugginiti, è giunto il momento di smantellarli. Dove serve, vanno invece incentivate nuove forme di imprenditorialità multifunzionale. Sempre e comunque, va ritrovato il valore del concetto del limite. Prima che esso sancisca la fine della specie umana per come la conosciamo.

In sintesi, ci viene richiesta la capacità di sognare in modo responsabile e di sognare presto e forte. Di uscire dai modelli predeterminati e predeterminanti facendo un uso saggio della nostra sana immaginazione. Sono solo un’artigiana delle parole, non una scienziata, non una geologa, non una glaciologa. Ma penso che anche le parole, così come i suoni, possano contribuire in modo chiaro e forte a realizzare questa nuova grande impresa. Del resto, la consapevolezza rappresenta sempre un ottimo punto di partenza. Soprattutto quando è in gioco il nostro ecosistema alpino, il nostro mondo di montanari per nascita e per passione, la nostra sussistenza e, per converso, anche il nostro addio al freddo.

Netflix, The Umbrella Academy, terza stagione

I poteri di The Umbrella Academy

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Una serie Netflix con dei super poteri

Il titolo può trarre in inganno: qui si tratta di capire quali sono i poteri di “The Umbrella Academy”, non i superpoteri dei suoi singoli personaggi. Sì, perché altrimenti rischieremmo di fare passare anche questo successo Netflix per l’ennesima serie TV. Per non parlare dell’ennesima storia con un gruppo di supereroi che cercano di salvare per l’ennesima volta il mondo. Ops! Spoiler alert: da qui in poi riveleremo parecchi dettagli della saga. Proveremo a scavare sotto la superficie, cercando di capire quali sono i poteri di “The Umbrella Academy”, di cui tra l’altro manca solo una stagione – la quarta – per arrivare alla conclusione.

the umbrella academy family
L’Umbrella Academy al completo. Immagine tratta dalla pagina Facebook “The Umbrella Academy Italia”.

Mi ci sono imbattuta tra i suggerimenti di Netflix, che ormai mi conosce abbastanza bene. Dopo averla vista tutta in lingua originale, ho convinto il mio compagno a fare da cavia riguardandola in italiano. E mi sono chiesta: che cosa funziona davvero in questa serie? Ovviamente non bastano due effetti speciali. Perché una storia faccia davvero presa, deve toccare tutta una serie di corde che ci risuonano dentro nel profondo. Qui proveremo a cercarle, chiamandole archetipi e cercando anche di rispondere a una serie di domande. Premessa importante: questi ragionamenti possono fare bene anche a chi non mastica il linguaggio delle serie TV. Tanto per cominciare infatti, al centro del racconto, si pone monolitico un grande quesito… cos’è il potere?

Il potere e la sua ricerca sono due componenti chiave praticamente di ogni storia che conti. Sia che si tratti di un superpotere da supereroi, sia che abbia a che fare con i poteri intrinseci al genere umano. Ad esempio: l’empatia è un potere? Per quanto mi riguarda sì, non c’è alcun dubbio. Per questa ragione, osservare da vicino una storia che funziona bene, una narrazione compiuta, è utile. Ci aiuta a cogliere cosa rende davvero potenti i suoi personaggi e, di riflesso, che cosa rende potenti noi in quanto esseri umani. Nella serie, il rapporto con il potere viene sviscerato in più modi e a più riprese, accarezzandone le diverse sfaccettature.

Una di queste riguarda il personaggio di Reginald Hargreeves, l’eccentrico vecchietto, tanto geniale quanto ricco, che ha fondato l’Umbrella Academy. Regi ha un rapporto molto particolare con il potere, a cominciare dal modo in cui lo esercita sui suoi 7 figli adottivi. Ragazzini straordinari, tutti nati il primo ottobre 1989 da madri che hanno avuto una gestazione in meno di 24 ore. Reginald li cresce esplorandone i superpoteri con cui sono venuti al mondo. Li porta alla luce, ma al contempo li asserve ad una missione più grande. Li prepara insomma per andare a salvare il mondo. Il rapporto è però estremamente rigido, severo, finalizzato ad allevare dei piccoli mostri dalle immense potenzialità. Uno dei poteri di The Umbrella Academy è probabilmente quello di adottare lenti psicologiche nella stesura di buona parte della trama.

Sir Reginald Hargreeves di certo non fa eccezione, considerando il modo in cui plasma i suoi pargoli sotto il profilo caratteriale, comportandosi da vero padre-padrone. Bellissima la scena in cui parte di quest’approccio viene svelato e cioè quando vediamo per la prima volta Klaus (uno dei 7 figli ormai cresciuti) nell’aldilà, mentre il padre gli fa la barba adottando una postura in tutto e per tutto simile a quella di Freud. Ma non si può parlare di potere senza altri due elementi chiave di ogni storia che si rispetti: consapevolezza e responsabilità. E su questi due temi ci giochiamo tutta la storia dell’Umbrella Academy, con la ricerca disperata di salvare il mondo da una fine certa (responsabilità) e la necessità di guardarsi dentro scavando nel profondo ed affrontando l’abisso delle proprie paure fino ad emergere con un nuovo, inesplorato potere (consapevolezza, di sé ma anche degli altri).

I poteri di The Umbrella Academy

I poteri di The Umbrella Academy stanno negli archetipi. Definire un “archetipo” non è cosa semplice. Nell’ambito della Comunicazione, anche questa parola sta subendo un picco inflazionistico non di poco conto; un po’ come altri termini che abbiamo scoperto essere molto di moda, “storytelling” e “resilienza” per primi. Stando alla definizione della Treccani: “Nel pensiero dello psichiatra e psicologo svizz. C. G. Jung (1875-1961), immagine primordiale contenuta nell’inconscio collettivo, la quale riunisce le esperienze della specie umana e della vita animale che la precedette, costituendo gli elementi simbolici delle favole, delle leggende e dei sogni.” Questa definizione rende bene l’idea di quanto potenti siano gli archetipi. Provando quindi a tracciarne i principali all’interno di questa storia, si rivelano con maggiore chiarezza anche i poteri di “The Umbrella Academy”.

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Scena tratta dalla seconda stagione. Sempre geniale la presenza dell’ombrello che si palesa all’improvviso. Immagine tratta dalla pagina Facebook “The Umbrella Academy Italia”.

L’apocalisse e il desiderio di evitarla

Eh già, quale sfida maggiore se non quella di salvare il mondo e, con esso, l’umanità intera? L’apocalisse è la cancellazione di ogni cosa, specialmente in chiave di soggetti viventi. La fine senza ritorno, il Giorno del giudizio. Un tema decisamente affascinante anche in ambito letterario – soprattutto per il filone fantascientifico – anche se la sua accezione primaria è fortemente religiosa e, fuor di dubbio, biblica. Nella serie poi non mancano gli scenari del post-apocalisse: cosa c’è in un mondo in cui tutto ha avuto termine? Dal “Vecchio e il bambino” di Guccini all’ecatombe nucleare della serie “One-Hundred”, le storie che fanno parte della nostra percezione del mondo spesso ci parlano della nostra attrazione proprio verso la sua fine ultima.

Qui il personaggio chiave è senz’ombra di dubbio Cinque, che incarna una sorta di Prometeo destinato a pagare il prezzo della conoscenza – una vita di solitudine – per portarne il dono ai mortali. Un dono non subito compreso e che si pone ben presto come il trigger della trama principale di tutta la serie TV, dalla prima alla terza (che sarebbe poi la penultima) stagione. Ragionando sui poteri di The Umbrella Academy è perciò impossibile non prendere in considerazione quanto potente sia il riferimento all’archetipo della distruzione. Tutto cessa di esistere per un errore umano, oppure per una catena di concause, di cui tutti i personaggi principali (a modo loro) dimostrano d’essere degli anelli intercambiabili.

Affrontare il tema della fine di tutto si contrappone e riequilibra con la domanda: cosa posso fare io per salvare il mondo? Dall’alto della terza stagione, un vecchio Cinque lancia il messaggio decisivo: non fare nulla. Non cercare di fermare l’apocalisse. Forse perché alla fine il mondo si salva da solo? Forse perché nel tuo tentativo di fermarla ne sei tu stesso la causa scatenante? O magari perché non ne vale poi tanto la pena? Gli scenari che si aprono sono molteplici, ma il quesito conserva intatto il suo fascino primordiale: se sapessimo che la fine del mondo si avvicina, non faremmo di tutto per porvi rimedio? Una domanda alla quale gli ambientalisti hanno da tempo trovato risposta.

locandina terza stagione The Umbrella Academy, Netflix
Il lancio della terza stagione di The Umbrella Academy, Netflix.

Il viaggio nel tempo e l’immortalità

Nella classifica dei poteri di The Umbrella Academy, un secondo meritatissimo posto va al connubio viaggio nel tempo + immortalità. Di cui la seconda non deve per forza di cose essere il seguito di una ricerca. Anzi: ci sono due personaggi potenzialmente semi immortali nella serie e con buona probabilità nessuno dei due si è cercato un simile fardello da caricarsi sulle spalle. Ma prima di capire che, se il tempo non procede in maniera lineare c’è possibilità di percorrerlo all’infinito, meglio guardare ai salti spazio-temporali di Cinque (da cui tutto, in qualche modo, sembra generarsi).

A 13 anni, il Cinque ragazzino padroneggia già molto bene l’abilità di saltare nello spazio e freme per tentare l’equazione che gli permetterà di fare piroette nel tempo. Reginald, a tavola con i fratelli sgomenti, gli ordina di lasciare perdere, in quanto le conseguenze di un salto temporale rischiano di essere troppo grandi per un piccolo Cinque. Le conseguenze o anche i semplici imprevisti, proprio come il fatto di restare per decenni prigionieri del futuro, arrivando proprio il giorno dopo dell’allora segreta Apolicasse. E infatti Cinque resta bloccato, tornare indietro per quanto ci provi e riprovi è troppo complesso. E a questo punto entra in gioco un altro dei personaggi più affascinanti e meglio riusciti della storia (peraltro assente nella versione originale del fumetto): The Handler.

The Handler rappresenta La Commissione, l’Ente segreto che si è auto-insignito dell’onere e del dovere di mantenere intatta la timeline predefinita. Una timeline secondo la quale l’apocalisse deve avvenire e ogni precedente momento della Storia deve renderla quindi possibile. Per garantire che l’ordine temporale venga rispettato, La Commissione mette in moto dei personaggi che ben poco hanno a che vedere con il tenero Martin di “Ritorno al Futuro”… E così Cinque, invecchiato nel post-apocalisse e dopo una serie di crimini, diventa un sicario e riesce a tornare dalla sua famiglia per avvisarla del pericolo incombente.

Sicari che viaggiano nel tempo, ragazzini impertinenti invecchiati male, goffi tentativi di scompaginare l’ordine cosmico per evitare che il mondo abbia fine… Possiamo davvero parlare di viaggio dell’eroe? Se la trama di “DARK” ci aveva incasinati forte, quella di The Umbrella Academy continua a farlo ma in modo ironico, senza perdere di vista che, ogni volta che cambiamo di ordine a un tassello per modificare l’immagine finale, non abbiamo poi la certezza di quale forma assumano le tessere del domino nel disegno conclusivo. L’archetipo dell’intervenire a tutti i costi ponendo pezze andando indietro negli anni è davvero molto forte. Ma, come tutti i grandi archetipi, qui ha anche l’accortezza di svelarci quanto umani e fallaci noi in fondo siamo.

La famiglia tra i poteri di The Umbrella Academy

In ogni famiglia c’è del potere e ci sono dinamiche diverse a seconda di chi e di come lo si esercita. Tra i poteri di The Umbrella Academy si possono sicuramente citare alcuni personaggi che incarnano degli archetipi molto forti. Ovviamente stravolgendoli. Il primo fra tutti è il già citato Sir Reginald Hargreeves, che impariamo davvero a conoscere solo a partire dalla seconda stagione. Andando indietro nel tempo, si arriva a un Regi del passato, che ha già concentrato buona parte delle sue energie sul potere stesso dell’educazione (in particolar modo sullo sviluppo cognitivo e comportamentale degli scimpanzé, il dolce Pogo ne sarà appunto l’esempio). Il fatto che un uomo talmente ossessionato dal potere e dalle modalità di esercitarlo abbia dedicato tanti sforzi ad esperimenti proprio sull’educazione fa riflettere. Proviamo allora ad unire questo aspetto ad un altro personaggio chiave della serie: Ben.

Ben sembra essere destinato a starsene in sordina durante tutta la storia. E invece il suo ruolo va incontro a un decollo improvviso a partire dalla terza stagione. Ma ovviamente in modo diametralmente opposto a quello del fantasma timido e riservato delle prime due season. Cos’è cambiato? Sicuramente l’educazione, il profondo marchio lasciato dall’upbringing. Un aspetto fondamentale del contesto, che qui prende, per l’appunto, il sopravvento in maniera decisiva. Tanto decisiva da farci pensare che uno dei messaggi in assoluto più forti di tutta la serie, e quindi a questo punto anche uno dei poteri di The Umbrella Academy, sia proprio il ruolo dell’educazione.

Come cresco qualcuno, quel qualcuno è destinato o meno a comprendere con maggiore o minore facilità il suo potenziale e a instradarlo secondo schemi diversi. Non è quindi un caso che la famiglia della prima stagione sia a tutti gli effetti sgangherata e colma di personaggi di fatto in cerca d’autore. Persone il cui unico calore reale è stato somministrato nel corso di tutta l’infanzia da una madre “finta”, nel vero senso della parola. Cioè, robotica.

Il ruolo del padre padrone si contrappone quindi a quello della madre-robot. Grace è stata programmata per reggere in modo letteralmente indistruttibile ai rocamboleschi capricci di Numero Sette (alias Vanya). E così la robot dalle sembianze estremamente docili si trasforma di volta in volta in scrigno d’amore, motivatrice, infermiera, educatrice, rassettatrice dell’enorme residenza Hargreeves e dei malumori di chi la popola. Se il padre è dispotico, la madre robotica (ma paradossalmente più dolce), l’unico ad incarnare a pieno titolo il ruolo di figura “umana” è Pogo. Cioè lo scimpanzé evoluto (e con ogni buona probabilità geneticamente modificato).

Come in ogni buona famiglia con dei super poteri poi, non mancano le dinamiche relazionali al limite dell’incesto. Leila e Luke Skywalker non erano forse fratelli? Luther e Allison lo sono solo per educazione, tema che torna ad essere ancora più centrale. E che non seguiremo di certo in quest’analisi. Decisamente interessante da approfondire sarebbe invece il ruolo del trickster, il personaggio che tiene aperte le porte delle possibilità, l’ambiguo sempre pronto a ribaltare storie, costumi e a volte persino mondi e morali. Cinque? Klaus? The Handler? Il compito è arduo e non me lo assumo.

Sir Reginald Hargreeves
Sir Reginald Hargreeves, padre dell’Umbrella Academy. Immagine tratta dalla pagina Facebook “The Umbrella Academy Italia”.

Il numero 7, le apparenze e il mondo alla rovescia

Il 7 è uno di quei numeri che non hai molta scelta: o lo ami, oppure lo odi. Numero primo dalla forte simbologia in campo esoterico (non sempre compresa, ma spesso corteggiata anche a livello narrativo), 7 è il numero di Vanya, la distruttrice (o l’incompresa). Non solo, ma 7 è anche il numero dei fratelli Hargreeves (sia nella versione Umbrella che in quella Sparrow) e se ad un certo punto Ben ci toglie il numero (rientrando di diritto in tutte e due le famiglie), ecco che nel frattempo il conteggio è già stato prontamente ristabilito da Laila. 7 è anche il numero delle stelle (o sfere) del sigillo all’Oblivion (terza stagione). Di certo, non è stato scelto a caso dagli autori.

E, dato che abbiamo citato l’hotel Obsidiana-Oblivion, vale la pena introdurre un altro dei poteri di The Umbrella Academy: la capacità di percepire una realtà diversa dietro lo strato della materia. O quantomeno d’ipotizzarne una possibile esistenza alternativa. Ciò che siamo e ciò che vorremmo essere. Ciò che siamo davvero e ciò che crediamo di essere. La parentesi dell’hotel astronave dietro il bisonte bianco (scelta anche questa ricca di valenza simbolica) è già di suo una sorta di salto alla “Alice in Wonderland”: in un mondo alla rovescia, che potrebbe essere ma che esiste solo in preparazione di altri mondi.

Un mondo veramente accessibile solo quando cogliamo a fondo il potere più potere di tutti i poteri di The Umbrella Academy: la consapevolezza di sé. Quale potere è infatti più grande del conoscere il proprio potere? Il “conosci te stesso” di socratica memoria ben si addice alla serie. Anche perché, è soltanto conoscendo il proprio potere (anche nel senso di potenziale), che impariamo a utilizzarlo in maniera corretta. Il personaggio di Vanya sembra incarnare quest’aspetto molto più degli altri. Se resta ignara del proprio potere, non cresce come personaggio (né come persona), se ne acquisisce consapevolezza deve poi comunque imparare a gestirlo. Un modo anche per esortarci a prendere coscienza delle nostre zone d’ombra e a capire verso cosa catalizzare davvero le nostre energie nella vita. Anche per non incappare nell’errore di Cinque… senza il quale, ben inteso, l’intera serie non avrebbe senso di esistere!

Volendo chiudere con un pizzico di filosofia, sono tanti i poteri di The Umbrella Academy. Così come i simboli e i messaggi che questa serie Netflix contiene. Una storia quindi che può dare il là a parecchie riflessioni. E che più di ogni altra cosa ci pone di fronte al quesito: so davvero come usare il mio potere? This remains to be seen…

Quando cammino canto

La paura d’incontrare davvero sé stessi. È uno degli appunti che mi sono segnata dopo aver letto “QUANDO CAMMINO CANTO Il cammino come esercizio di trasformazione”, di Maria Corno. Ho segnato questa frase insieme a molte altre: tanti passi a piè lento e insieme sospinto che permettono di arrivare alla stessa, mutevole meta. Quel sé stessi che sempre cerchiamo e che ci accorgiamo essere, appunto, oggetto costante di mutamento, di trasformazione. Non ho ancora avuto il piacere d’incontrare Maria per chiederle: di quale paura ci si libera davvero durante un cammino? Intendo qui l’atto fisico di camminare, d’imboccare un antico (o nuovo) tracciato da disegnare e ridisegnare a piedi. Sono tante in realtà le domande che le vorrei porre e – presto – ne avrò occasione:

Mentre scrivo provo ad ascoltare qualche canto tradizionale ebraico, partendo da una playlist su Spotify. Questo perché il cantare del titolo non è una semplice metafora: Maria Canta, quando cammina. Non sempre, non per forza. Ma ci sono tratti di strada in cui, oltre allo zaino sulle spalle e ai cerotti sulle vesciche, le immancabili calze di ricambio e il suo frammento di quarzo citrino, è proprio il canto a farle compagnia. Non penso che durante la presentazione di mercoledì 15 novembre, presso il polo UNIMONT a Edolo, l’autrice si metterà a cantare. Ma, se così fosse, ne sarei felice.

Apro e chiudo una mia piccola parentesi. Me ne prendo il diritto in virtù del fatto che “Quando cammino canto” è un libro fortemente intessuto di vita. E la vita, così come emerge dal testo, è un grande mosaico d’istanti. Istanti che si trasformano in aneddoti. Non faccio nomi, non voglio tradire la fiducia di chi ha vissuto con me queste vicende. Ma ricordo un paio di momenti in cui quest’estate, in Armenia, il canto di temi antichi, melodie intrise di ogni possibile significato, ha riverberato tra le pietre chiare dei monasteri. Istanti che varcano le soglie dell’Infinito.

il selvatico, la bellezza, l’amore. Non c’è salute senza di essi.”

Maria Corno

Momenti estremi, in cui se ci fosse stato un Battiato avrebbe vissuto una delle sue folgorazioni. Io ovviamente non sono il Maestro e nemmeno una camminatrice provetta. Ma la digressione mi serviva proprio per stare sul tema: la potenza della voce umana che entra in contatto con quanto la circonda e ci si unisce, amplificando Bellezza. Ecco, penso che camminare, da come ho inteso il libro di Maria Corno, sia anche questo: mettersi in relazione con l’Universo. E con quest’aspetto – universale, appunto – siamo tutti più o meno in grado di empatizzare. Di relazionarci.

Così lungo la via Francigena, in cammino verso Santiago, scarpinando leggeri su antiche vie carovaniere, collegando le propaggini d’Italia con le suggestioni delle coste turche. O addentrandosi nel profondo. Fino alla fine del mondo, oltre Santiago. A cercar conchiglie e riparo interiore dalla necessità di porre fine ad un accadimento tanto semplice quanto glorioso. Quell’essersi messi in cammino, che oggi rappresenta – non a caso – anche una scelta rivoluzionaria.

Per tempi, modi e intenzioni: vissuta con l’autenticità necessaria al fine di sorpassare le mode, il semplice trekking, il mordi e fuggi del turista distratto o troppo preso dalla meta e troppo poco dallo spostamento. Leggendo, mi sono ritrovata persino in Giappone, girando in tondo per tornare – più centrata – al punto di partenza. Pellegrinaggio? Anche. Finché è alla nostra Anima che rendiamo omaggio, santificandola con la potenza dell’incontro. Con l’apertura all’altro, al Fato, a ciò che non sta scritto che sulla polvere della strada.

Il Cammino mette in movimento le storie. Ognuno porta e svolge la propria, passo dopo passo.”

Maria Corno

Camminare, dunque. Aprendosi agli angeli che, laicamente o misticamente, s’incontrano lungo il cammino stesso. Alle coincidenze, che coinvolgono il genius loci del posto che si sta attraversando, oppure i suoi abitanti. O, magari, altri camminatori. Persone, volti e voci che si possono incontrare solo lungo la via, non a caso dai più ritenuta metafora di vita. Il cammino: una forma di meditazione, un’espressione di preghiera interiore, uno strumento potentissimo per rispondere alle necessità del proprio benessere. Fisico e mentale, ma anche – perché no?! – spirituale.

Sono felice d’incontrare Maria domani, di poterla intervistare al termine della presentazione. Di accogliere il tono entusiasta della sua voce. Anche quando, semplicemente, da ferma, parla. Immaginandola però sempre e ancora in movimento. Alla ricerca, forse, della ricerca stessa. Una quête che ci porta, per definizione, fuori dalle nostre quattro mura. Fossero anche bastioni mentali, o le siepi fortificate del nostro giardino. In compagnia o in solitudine, lungo le strade del mondo.

Libera la tua luce e volta pagina

Da come impostiamo la nostra esistenza si evincono molte cose. Un po’ come quando entriamo in casa di qualcuno e sbirciamo la libreria per cercare di farci un’idea più precisa – intima e privata – della persona che siamo andati a trovare. Allo stesso modo se osserviamo da vicino il comportamento di un estraneo ci sembrerà già di conoscerlo almeno un pochino. Ma l’affermazione è vera anche in un altro senso. Il modo in cui decidiamo di trascorrere il tempo che ci è concesso esercita una grande influenza sulla maniera in cui guardiamo alle cose. E, per converso, su come le affrontiamo. Quando Alessandro mi ha portato il suo “Libera la tua luce e volta pagina”, non sapevo con esattezza che il libro parlasse proprio di questo.

Urge fare un paio di passi indietro. Il primo riguarda il tipo di letture che sto portando avanti in questo periodo. Il secondo ha invece a che fare con il contesto. Parto dall’ultimo, così sputo il rospo. Il contatto con Alessandro Comella è avvenuto grazie alla mente e al cuore di chi stava organizzando una serata a Berzo Demo. Sabato 11 novembre faremo un aperilibro in cui sarò in dialogo con l’autore e a seguire ci sarà un piacevole aperitivo con prodotti del territorio. Allego subito la locandina per piacere di chiarezza:

Sono molto grata di essere stata coinvolta nell’iniziativa, soprattutto per gli argomenti che emergeranno nel corso della serata. Sto giusto riguardando la scaletta delle domande, perché ci sono molti modi per leggere questo libro. E – tanto per tornare al punto uno – confesso di essermi approcciata alla lettura in un periodo in cui la mia testa era, almeno in parte, su altro. Ero infatti tutta presa da teorie sullo sviluppo delle religioni, roba al limite dell’Antropologia. E poi mi sono ritrovata tra le mani questo “Libera la tua luce e volta pagina”. All’inizio, non sapevo bene che pesci pigliare. Così ho affrontato la cosa di petto e ho cominciato a leggerlo praticamente senza fermarmi, in un paio di riprese. Si è rivelato un errore, ma solo in parte.

L’errore – tutto mio – sta nell’avere letto troppo rapidamente una cosa bella. L’altro lato della medaglia è che quando un libro scorre, scorre; nel senso che è un piacere leggere qualcosa di fluido, che non c’impianta il cervello ad ogni paragrafo. Scrivo questa cosa perché penso che possa essere un buon consiglio per chi deciderà di leggere il testo di Alessandro. Va letto piano. Con calma. Per incarnare al meglio il principio di essere nel presente, nel qui e ora. Per lasciarsi assorbire dalle esperienze e dagli spunti che l’autore ha scelto di condividere con chi legge. E se da un lato è vero che ormai tutti scrivono e che tutti pubblicano, è bene sottolineare anche che non tutti hanno il coraggio di mettersi a nudo.

A conti fatti, siamo noi a scegliere quale importanza dare agli avvenimenti che incontriamo, e a consentirgli o meno di interferire con la nostra felicità.

alessandro comella

Alessandro della sua esperienza racconta, con grande delicatezza, anche i momenti più complicati. Lo fa senza entrare troppo nel dettaglio, lasciando però intendere al lettore quanto siano stati bui. E leggendo ci si accorge del pregio del testo: la sincerità. Posso affermarlo solo con cautela, non avendo conosciuto l’autore prima della lettura del libro, se non per un breve incontro (breve per durata, intenso per contenuti). Ma in “Libera la tua luce e volta pagina” fa una cosa che non tutti avremmo il coraggio di fare. Analizza il proprio vissuto, tracciando i contorni di un progressivo percorso di miglioramento. Un miglioramento in cui Alessandro è stato affiancato da persone competenti, che a più riprese e in più occasioni gli sono state di supporto quando era il momento di fare ciò che il titolo così bene esprime: voltare pagina.

Il genere umano immagino scelga di cambiare per sopravvivenza. A volte però, l’intenzione profonda di dare un nuovo corso alla propria esistenza arriva solo quando si è al limite. Oppure, peggio ancora, non arriva mai. Per questo penso che leggere l’esperienza – diretta e assistita – di una persona che ha vissuto periodi di buio possa essere di grande aiuto. Per tutti. M’interrogo spesso sul ruolo delle storie personali e del perché andrebbero diffuse. Del perché qualcuno dovrebbe poter voler leggere la vita di un’altra persona quando questa non è comunemente annoverata tra i personaggi famosi. E spesso mi ritrovo a pensare che ci salviamo – anche – a vicenda.

continuando a scaricare la responsabilità al di fuori di me mi sarei completamente tolto il potere di agire per cambiare la situazione.

alessandro comella

Recependo l’esperienza di un altro essere umano traggo spunti, temi validi al mio personale percorso. Posso anche scegliere d’ignorarli, di tirare dritto per la mia strada. Ma, prima o poi, il conto si presenta. Di Alessandro ho trovato intelligente il fatto di partire dalla lettura dei propri momenti bui apponendovi una nuova etichetta: quella di “innesco” verso la crisi e da lì il nuovo. E il fatto di riconoscere, passo passo, come osservare i propri demoni interiori, studiarne le forme, per poi consentire alla propria vita di prendere una direzione diversa. Al termine di ogni passaggio significativo Alessandro inserisce inoltre una breve sosta. Qualche domanda, uno spazio pensato affinché il lettore si chieda se non ci sia qualcosa in cui si sente risuonare, che lo riguarda in prima persona.

Il disagio nella nostra società può assumere molte forme. Quella però con cui mi sento di avere avuto maggiori riscontri a livello di letture e di conoscenze riguarda il famigerato equilibrio tra vita privata e lavoro. “Libera la tua luce e volta pagina” si concentra molto su quest’aspetto. Su come necessitiamo di più tempo libero e di come, quando finalmente prendiamo coscienza di questa necessità, poi fatichiamo per ottenerlo. Ma la cosa più assurda è che, una volta conquistato, questo sacrosanto diritto al coltivarsi, all’avere del tempo da spendere propriamente per sé, rischiamo di non godercelo. Sono molti i tranelli della mente in cui corriamo il rischio d’incappare. Molte le sfide di fronte alle quali la vita ci mette, partendo proprio da ciò che la testa c’impone. Ciò che dovremmo essere, ciò che dovremmo fare.

[…] Oltre a ciò, l’aspetto ancora più importante rispetto alla propria crescita è la possibilità di costruirsi un gruppo di pari, composto da tutte quelle relazioni di valore costruite nel tempo grazie ai vari percorsi. Persone con interessi, esigenze e ambizioni simili alle tue, ma con storie ed esperienze molto diverse, da integrare nella tua.”

alessandro comella

La testimonianza di Alessandro parla di un’esperienza: la sua. Di chi lo ha aiutato a riscattare, tra le altre cose, anche la capacità di godere del proprio tempo senza trascurare il mondo in cui siamo tutti immersi. Di come ci si può rimettere al centro. Ma ciò che più mi ha colpita della sua storia è stata la determinazione con la quale ha trasformato le proprie azioni e i propri pensieri. Costanza, perseveranza, testardaggine (in senso positivo): varie declinazioni dello stesso elemento. Un elemento senza il quale è pressoché impossibile cambiare il corso della propria esistenza e arrivare così – finalmente! – a voltare pagina. Per cambiare vita servono nuove abitudini. Una cosa tanto semplice e immediata quanto difficile poi all’atto pratico.

La storia di Alessandro è di diritto una storia luminosa perché racconta, senza la pretesa di mettersi in cattedra a insegnare. Lo fa con delicatezza e determinazione, partendo dal disagio, osservandolo e arrivando a delineare nuovi contorni per la propria esistenza. Anche se sono poco avvezza a questo genere di letture, sono felice che ci sia chi ha il coraggio di raccontare non solo il proprio buio; ma soprattutto il percorso che ha trovato più consono e appropriato per liberare la propria luce!

FIABE FAROESI Tra troll, bugie e simboli antichi

Dirette, intense, cruente. Talvolta persino irriverenti. Fiabe faroesi, raccolta edita da Iperborea con traduzione e postfazione di Luca Taglianetti, apre uno spiraglio importante sull’immaginario collettivo – e la memoria storica – di questo popolo lontano. C’arrivo tardi, lo confesso. Il libro è uscito da quasi cinque anni, con la prima edizione nel novembre del 2018. È stato dato alle stampe dopo Fiabe lapponi (2014), Fiabe danesi (2015), Fiabe islandesi (2016), Fiabe svedesi (2017). Una lunga carrellata di ricerca letteraria per scavare nel folklore nordico. Ho una seconda confessione da fare: non ho ancora letto gli altri volumi di questa serie, né le opere precedenti né quelle pubblicate in seguito (dedicate alle fiabe norvegesi, groenlandesi, finlandesi e della terra dei Sami). Se ci sono arrivata è, come spesso accade coi libri, per caso e fortuna. O quasi…  

Da qualche tempo e in maniera del tutto inaspettata, le fiabe sono tornate a fare parte dei miei scaffali. Tutto è iniziato con un regalo: Le fiabe interpretate, di Marie-Louise von Franz. Un libro che si collegava ad altre letture di inizio anno, legate al bestseller Donne che corrono coi lupi. Per questo sono rimasta sorpresa quando in Armenia, in coincidenze del tutto fortuite, mi è finito tra le mani un volumetto in italiano dal titolo Fiabe armene. Forse un giorno avrò modo di raccontare anche come si è svolta questa scoperta inaspettata. Ma qui mi serve solo per dire che, se io negli ultimi mesi stavo più che altro cercando i miti e le leggende, erano le fiabe che stavano cercando me.  

Fiabe faroesi, nelle sue 157 pagine, racconta di un popolo in cerca di un’identità propria e della sua salvaguardia. Una remota provincia della Danimarca aggrappata a isolotti di vento e roccia e a una natura probabilmente cruenta, forse anch’essa in cerca d’autore. Non sono mai stata nelle Isole Faroe. Posso solo azzardare delle ipotesi. Ma la cosa curiosa è come ora me le figuro nella mente, dopo aver letto i 28 racconti e il commento finale, di Luca Taglianetti. Il commento l’ho letto prima di completare la lettura delle storie. Avevo bisogno di contestualizzare, di avvalermi di qualche indizio in più per capire che cosa davvero stessi leggendo.  

La sensazione era infatti quella di essermi imbattuta in racconti che dopo la formula di rito del famoso C’era una volta si tuffavano in episodi di brutalità, o di ironia ai miei occhi violenta, quasi estremizzata. Altri tempi, altri luoghi, ovvio. Ma pure facendo appello ad un certo relativismo culturale e alla consapevolezza della ferocia delle fiabe raccolte dai Fratelli Grimm, c’era qualcosa che non mi tornava. Per la maggior parte dei racconti, mi sembrava di trovarmi di fronte ad un tipo di narrazione lontana da molte fiabe di diverse culture. Persino il lieto fine spesso era soggetto a condizioni per me ben poco liete. Sentivo l’assenza di alcuni motivi ricorrenti. Quindi le parole del curatore mi sono state decisamente utili per contestualizzare il tutto.  

Così, mi sono ritrovata in una gelida notte di gennaio. Una di quelle in cui fuori senti ruggire il mare a miglia di distanza e provi gioia per il tepore di una fiamma crepitante. Lì, attorno allo stesso fuoco, c’è la tua comunità d’appartenenza, che ogni sera d’inverno si plasma e riplasma in modo incessante, con un lento sciabordio d’onde di parole. Si tratta delle kvøldsetur, le sedute serali. E qui mi sembra doveroso citare direttamente il testo:  

C’è una netta distinzione tra i narratori di leggende locali, per la maggior parte uomini, e le narratrici di fiabe, quasi esclusivamente donne anziane non sposate, non scolarizzate, che vivevano sole o lavoravano come serve.

L. taglianetti

Donne, per l’appunto. Donne il cui isolamento geografico avrebbe, come alcuni studiosi ritengono, contribuito alla trasmissione per via diretta di un repertorio locale autentico. Repertorio dal quale si evincono alcuni temi comuni al resto d’Europa (o quantomeno di una certa Europa centro-settentrionale), ma dai quali mancano aspetti comunemente presenti altrove. Un’originalità autoctona quindi.  

Per un lungo tempo le kvøldsetur furono l’unico mezzo di trasmissione e di consapevolezza culturale nazionale, vero centro della vita sociale faroese.

L. taglianetti

Una narrazione quasi spontanea quindi, vecchia di chissà quanti secoli, cui aggrapparsi per non sprofondare in una progressiva assimilazione culturale data dal dominio straniero. Incredibile quanta poca importanza diamo alle fiabe e quanta rilevanza dovremmo invece riconoscer loro. Se non a livello letterario, almeno sul piano antropologico. Se il repertorio di fiabe di un popolo offre quindi elementi d’analisi importanti sulla sua cultura, tornando alla von Franz, vari temi ricorrenti delle fiabe lasciano intravedere aspetti di culti pagani. E, in particolare, di quella religione della Dea che a lungo deve avere caratterizzato anche il nostro continente, allora molto più giovane che vecchio.  

Così, sono stata felice quando, addentrandomi verso le ultime fiabe, mi è sembrato di scorgere alcuni di questi elementi. Potrei avere preso un abbaglio, ma proverò comunque ad elencarne alcuni. Prima però penso sia giusto osservare più da vicino la terra di cui stiamo parlando. Come scrive Giulia Pretta su Critica Letteraria poco dopo l’uscita del libro: “Il piccolo arcipelago che conta diciotto isole, circa cinquantamila abitanti e ottantamila pecore, è quello delle Faroe. Selvaggio, riservato e schivo, ha per lungo tempo tenuto per sé il proprio bagaglio folkloristico.”  Un bagaglio nel quale, è giusto dirlo, sono comunque presenti anche elementi comuni ad altre culture.

Taglianetti, nel commento finale al testo, fa riferimento a precedenti studi condotti sulle fiabe faroesi. Spesso, infatti, queste storie contengono influssi danesi, norvegesi e aspetti che le accomunano alle saghe e all’epica medievale islandese. Ci sono i giganti, le fanciulle rapite (spesso proprio da troll, giganti o affini) da ricevere in premio come spose una volta portate in salvo. Ci sono protagonisti la cui scaltrezza è suggerita già dal nome: Lokki resta decisamente simile alla divinità Loki. C’è la figura di Ceneraccio. Così come “l’importanza di ingraziarsi la benevolenza di spiriti e folletti, che con il loro intervento possono cambiare la vita e le sorti degli uomini”. Per non parlare della necessità di compiere una decapitazione affinché l’animale parlante torni alla sua forma originaria e l’incantesimo si spezzi, una volta per tutte. Tutti questi elementi sono presentati in maniera succinta, ma chiara, nel commento di chiusura al testo.  

Ci sono però altri elementi che hanno attirato la mia attenzione oltre a quelli elencati sopra. Per osservarli, provo a tornare direttamente alle fiabe, di cui mi verrebbe da evidenziare il gesto di spezzare la schiena per fermare qualcuno. La sua colonna vertebrale, certo, ma in modo più esteso la sua stessa capacità d’agire e reagire agli eventi. La presenza del calderone/pentola quale strumento anche risolutivo delle vicende. Frasi come “si dice che i giganti potessero far calare o disperdere la nebbia a loro piacimento”. I dodici briganti del bosco, che mi chiedo se in qualche modo possano essere legati ai 12 mesi dell’anno. La vicenda della casa di frittelle che ricorda quella della strega di Hansel e Gretel. Per non parlare di montagne ed edifici di vetro, cespugli di rose, il cervo, o chiavi di ogni sorta.  

Ma questi, a ben vedere, sono dettagli. Forse preziosissimi per capire meglio analisi e significato di queste storie, oppure totalmente inutili e fuorvianti. Ciò che emerge tra le righe di questa raccolta di fiabe faroesi è invece una coppia di temi, non per forza presenti insieme. Da un lato, un modo di fare che si può riassumere con l’esclamazione “Non potrà andar peggio delle altre volte” e che serve a legittimare il protagonista nel suo tentare (e alla fine riuscire) dove altri prima di lui hanno fallito. Una sorta di cos’abbiamo da perdere che, visto dall’esterno, mi sa tanto di popolo avvezzo alle catastrofi. Al doversi continuamente inventare e reinventare perché non ha alternativa. Dall’altro lato invece, ecco l’elemento ricorrente della bugia.  

Spesso il protagonista è oggetto di delazione da parte di quanti lo invidiano e vorrebbero prendere il suo posto. In altri casi invece, è proprio il personaggio principale a ricorrere alla menzogna pur di rendere propizia la situazione per salvarsi la vita o riuscire nel suo intento. La bugia però resta. Verrebbe – ma sarebbe da verificare – quasi da considerarla quale espediente necessario a sopravvivere in un mondo in cui le avversità sono frequenti. Un contesto geografico, climatico, storico, in cui la scaltrezza è spesso necessaria o quantomeno presente. E, in quanto tale, se in un certo modo va tramandata o insegnata alle nuove generazioni in ascolto, dall’altro implica anche la capacità di farsi valere e di mettersi al riparo contro i soprusi.  

E l’elemento femminile? Le fiabe faroesi non contemplano unicamente l’opzione della principessa da salvare. Ci sono anzi racconti in cui le streghe del bosco, oppure la madre del protagonista, permettono di arrivare felicemente alla conclusione. Ci sono persino protagoniste femminili, capaci di sbrogliare la matassa e di riuscire nell’impresa. Non a caso, una delle storie che più mi sono piaciute – e in cui a mio discreto parere sono presenti elementi sacri femminili in gran numero – è quella intitolata Il ragazzo che fu rapito dalla sirena. Non mi dilungo, solo questa tra tutte le brevi ma intense fiabe faroesi si meriterebbe un lungo approfondimento. Chiudo invece con un tema comune a tante fiabe, non solo di queste terre lontane, ma più in generale: la necessità di trovare e di ritrovare qualcosa.

Sarà una mia semplice suggestione, ma mi fa pensare a quanto di noi perdiamo per poi correre a cercarlo perché ci rendiamo conto che, senza quella componente del nostro essere, semplicemente non potremmo esistere. Un po’ come con le fiabe: perdute, ritrovate ed eternamente presenti.      

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