C’è un vecchio sulla cima della montagna. Non gli daremo un nome, né qui, né ora. E non perché non ne abbia uno, o perché sia un parto imprevisto della mia o della vostra fantasia. Non gli daremo un nome – e su questo decidiamo d’essere d’accordo – per due buone ragioni. La prima è che la sua storia potrebbe essere vera ovunque, ora e sempre, in ogni provincia di ogni impero sotto il sole. La seconda è che nella bellezza di quest’incontro, non gliel’abbiamo chiesto. Ci è sembrato bello così: dimenticarcene all’inizio e poi lasciare che nelle nostre orecchie la sua voce assumesse le vibrazioni del “sempre-vero” e dell’eterno, che per definizione non hanno bisogno di un nome proprio.
Anche senza nome, la persona se vogliamo protagonista di quest’episodio di vita è realmente esistita e ci auguriamo teneramente che ancora esista e che persista in questo suo incedere per il mondo, per molti anni a venire. Il luogo è ancora la Sardegna, grande isola di vento, gentilezza e sughero dalla quale non ci siamo davvero mai spostati, procedendo in macchina o in punta di tastiera dal post di ieri a quello di oggi. La Sardegna che ci accoglie qui è nell’interno: non troppo da non riuscire ad intravedere il mare (può succedere anche questo) al suo orizzonte e non troppo poco da poter godere delle sue ricchezze. Siamo, insomma, in montagna. E già per questo ci sentiamo anche un po’ a casa. Durante il viaggio mi sono portata un taccuino, da cui ora mi piace attingere a sprazzi, per non perdere la bellezza di quest’incontro totalmente fortuito e della mia sorpresa nel provarmi poi a descriverlo.

Nelle guide turistiche, il luogo che avevamo deciso di visitare quel giorno viene descritto come un borgo di montagna, caratterizzato dalla coltivazione delle ciliegie e dalle foreste centenarie attraversate da mufloni e piccoli cervi sardi. Ci sembrava una tappa carina per spezzare il lungo viaggio che dalla costa occidentale ci stava portando a quella orientale. Ma arrivati in paese, come spesso accade in questi casi, non sapevamo bene dove dirigerci e abbiamo fatto l’unica cosa che ci sembrasse sensata: seguire più l’istinto che Google Maps.
Tenendo per il nuraghe segnalato, abbiamo fermato la macchina in un punto che sembrava essere molto panoramico. Lo spiazzo era infatti giusto ai piedi di un’altura e dopo esserci cambiati le scarpe siamo saliti, sotto il sole di mezzogiorno. Sulla cima, svettava una piccola costruzione a forma di capanna, con le pareti di vetro. Attorno alla costruzione si aggiravano alcune persone, ma il nostro sguardo era per lo più avvolto da un manto di boschi e creste, con il blu intenso del mare in lontananza.

Arrivati sul posto, ci siamo resi conto che le persone che vedevamo aggirarsi erano due bambini e un signore che a prima vista ci è sembrato vecchio. La bimba aveva capelli lunghissimi e castani, raccolti in una treccia che le scendeva fin sotto alla vita. Il fratello, di poco più grande ma già con l’atteggiamento un po’ imbronciato dell’adolescenza, portava pantaloni di velluto scuro e aveva in testa un berretto tradizionale. Il signore ci ha invitati ad avvicinarci: ha capito che il panorama ci incuriosiva. Da questo esatto momento in cui il nostro timore di disturbare è stato vinto dalla gentilezza del posto, è nata una pausa lunga un dialogo tra due mondi. L’abbiamo trascorsa all’interno di quella che abbiamo scoperto essere una vedretta del corpo forestale sardo, in compagnia di un caffè della moka servito in bicchierini di plastica e delle nostre prugne acquistate al mini-market.
Con quell’uomo ci siamo scambiati impressioni, visioni, ragionamenti. Agli occhi luccicanti della bimba – che solo in quel momento ha perso la quasi proverbiale timidezza – abbiamo mostrato foto di neve e delle nostre montagne. Abbiamo assaggiato, entrando in punta di piedi e con la paura di rompere un incantesimo di cortesia, l’ospitalità sarda. Quella di cui avevamo giusto letto nel testo della Murgia che ci siamo portati appresso; la stessa di cui avevamo avuto un assaggio con i personaggi incredibili degli alloggi che abbiamo conosciuto strada facendo. Ma un conto è leggerne in un libro sulla Sardegna scritto da un’autrice sarda, o riscontrarla nel modo di fare di uno chef giramondo che ha messo la sua casa in affitto. Un altro, è assaporarne per intero tutta la bellezza abbarbicata su di una vedretta spersa tra i boschi.

Boschi amati e presidiati con lo sguardo vigile di un padre che ha a cuore la propria terra come si ha a cuore una madre, o un figlio primogenito. Di questo signore – mezzo pastore e mezzo forestale – mi piace pensare come di un essere umano vero, profondo, per nulla scontato. A tutto tondo come solo la realtà sa essere, nel momento esatto in cui inizia a diventare talmente vera da profumare di mitologia. Il fisico segnato dagli anni di pastorizia e dalle lunghe veglie tra un lavoro e l’altro; gli occhi grandi e scuri, come due pozzi di sincerità.
Parlando con lui, ci siamo sentiti tutti fratelli. Noi, figli a nostra volta della provincia e della montagna; di tutti quei luoghi troppo lontani dai centri di ogni potere. Eppure, quanta forza e bellezza in questa periferia dello Stato. In questi posti in cui tutti ci si arrangia, aiutandosi sempre con affetto e con altrettanta diffidenza, ascoltando le storie dei forestieri e paragonandole alla propria, quotidiana esistenza.

Nei giorni del nostro viaggio, in cui la Sardegna aveva forse appena smesso di bruciare, appariva ancora più assurdo constatare come la macchina dello Stato abbia ridotto, negli anni, i fondi destinati al presidio del territorio. Di questi avamposti umani affacciati sulla delicata bellezza delle foreste, cosa dovrebbe restare? E poi c’è quella che in molti ritengono sia mancanza di visione, di intraprendenza. Qui il sardo ti guarda mentre racconta delle idee che gli sono venute, titubante nel sentire la sua stessa voce che racconta di quelle bizzarrie. E nel farlo ti scruta, ponendo l’accento sulla poesia di una passeggiata a cavallo e incespicando nella paura, nel timore di mettercisi ad investire sul serio, per ricavarne indotto.
Ti guarda, con quegli occhi immensi, che si sciolgono perfino. E tu non sai davvero, mentre riponi nello zaino la borsina di plastica del mini-market, se augurargli l’intraprendenza sfacciata della costa svenduta. O se sperare che anche l’amico pastore possa restare per sempre sé stesso, eternamente parte di una vedretta affacciata sui monti e immersa nella bellezza pietrosa del nulla.